Stoviglie.
Le stoviglie più antiche erano di legno o di ceramica; più tardi entrarono in uso i piatti in ferro smaltato.
Piatto di ceramica (n. i. 209)
provenienza: San Vito (Leonessa)
materiale: ceramica
descrizione: piatto piano decorato sulla faccia a vista con soggetti orientaleggianti (donne tra alberi in fiore). La particolarità del pezzo, che lo rende degno di essere esposto, è la riparazione mediante grappe metalliche di una rottura che aveva diviso il piatto in due parti. Le grappe sono sette – due sul bordo e cinque sul fondo – tutte non passanti
misure: diam. cm.31 cm.; parte concava: diam. cm. 23,7 h. cm. 3,1; spess. mm. 7
acquisizione: dono di Maria Adelaide Di Persio
stato di conservazione: ottimo
anno: 2014
La tavola.
Le tavole da pranzo più antiche, costruite con assi robusti, ereditate dagli avi, erano di notevoli dimensioni in quanto attorno ad esse si riunivano famiglie assai numerose.
La riparazione delle stoviglie. Fino agli anni Cinquanta, giravano per borghi e paesi artigiani, detti “conciabrocche”, specializzati nella riparazione di stoviglie. Muniti di un trapano a mano, eseguivano dei fori obliqui non passanti nei quali infilavano grappe costruite con filo di ferro. I usavano uno speciale collante a base di calce e chiara d’uovo che assicurava alle parti riparate e alle grappe una tenuta ottimale. La perizia dell’artigiano permetteva di riparare le ceramiche evitando il passaggio delle grappe di ferro all’interno delle stesse. Ciò per evitare la corrosione e l’alterazione dei sapori e, nelle ceramiche di migliore qualità, per fini estetici.
Terrina ceramica – piattélla o ‘nzalatiéra (n. i. 90)
provenienza: Villa Pulcini (Leonessa)
materiale: ceramica inventriata
descrizione: insalatiera di fabbricazione industriale, sul fondo il marchio VED////&FIGLIO con stemma. Rotta in antico e riparata da artigiano specializzato (“conciabrocche”) con grappe di filo di ferro inserite in fori non passanti
misure: diam. sup. cm. 31,5; diam. inf. cm. 22,3; h. cm. 11,2
stato di conservazione: rotta in antico e riparata
acquisizione: dono di Gina e Luigi Pulcini
anno: 2011
bibliografia: Scheuermeier 1996, II: foto 466 (da Rieti)
Pulizia e lucidatura degli utensili di rame.
Gli utensili di rame, simbolo di agiatezza, quando non erano usati facevano bella mostra di sé appesi alle pareti della cucina, o ai ganci delle assicelle di legno infisse al muro, dette “‘ppiccarame”. Per liberare le pareti esterne dei recipienti di rame dalla fuliggine, si usava strofinarli con la sabbia.
Pulizia con la cenere (liscìja).
Almeno una volta l’anno, in occasione dell’inizio della Quaresima, mantenuta viva dallo scrupolo religioso, la tradizione imponeva alla massaia di pulire a fondo i recipienti usati nel corso dell’anno per cucinare alimenti proibiti dal digiuno quaresimale, quali la carne e lo strutto di maiale. A tal fine, si faceva bollire in acqua una certa quantità di cenere del focolare con la quale si lavava accuratamente l’interno del recipiente per liberarlo da qualsiasi traccia di grasso, anche la più piccola. L’operazione – molto efficace perché la cenere saponificava i grassi rendendoli solubili in acqua – aveva luogo dopo la mezzanotte del Martedì Grasso, ultimo giorno di Carnevale, per celebrare il quale si era consumata una grande quantità di strutto di maiale:
Carnovale, juttu juttu
s’è magnatu ‘na pila de struttu,
Quaravesima, poverella,
s’è magnata la saraghèlla
Ossia: “Carnevale, ghiotto ghiotto, s’è mangiato una pila di strutto, la Quaresima poverella s’è mangiato il pesce secco (saraghèlla)”
Lucidatura del rame.
Per lucidare il rame, dopo aver strofinato con forza l’esterno del recipiente sporco di fuliggine con sabbia, o paglia di ferro, lo si ripuliva e tirava a lucido usando una pasta ottenuta mescolando cenere e aceto.
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