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Saturday, 22 March 2014 00:00

La pala

La pala da forno.
Per infornare il pane si usava un’apposita pala monoxila ricavata, in genere, da un unico pezzo di faggio. Sulla parte piana della pala, priva di angoli vivi, si appoggiava la pagnotta da deporre sul fondo riscaldato del camino.


Pala da forno
pala pe’ ‘nfornà (n. i. 61)

provenienza: Leonessa
materiale: legno di faggio
descrizione: pala monoxila
misure: l. cm. 184,5; manico a sezione arrotondata ovaloide: diam. cm. 5 e cm. 4
stato di conservazione: buono (mancante dell’estremità del manico)
acquisizione: dono di Tonino Zelli
anno: 2012
bibliografia: Scheuermeier 1996, I: 203

Il mondatoio (lu rimónniru).
Per pulire il piano del forno prima della cottura del pane, si adoperava un bastone lungo un paio di metri all’estremità del quale, mediante del filo di ferro, erano legati degli stracci. Lu rimónniru era usato anche per allontanare dal piano di cottura i restanti residui di brace dopo aver liberato il piano di cottura mediante una pala.

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Saturday, 22 March 2014 00:00

La tavola per il trasporto del pane

La tavola per il trasporto del pane.
Una volta terminata la lievitazione, I “filoni” di pane erano disposti l’uno a fianco all’altro, su una tavola di legno coperta da un panno di lino o di canapa (lu pannèllu) per essere trasportati al forno. La tavola, sistemata in perfetto bilanciamento, veniva posta sulla testa della donna poggiandola su un cercine (roccia). In questo delicato genere di trasporto, l’abilità delle donne era davvero eccezionale anche quando si trattava di salire o scendere per le scale o affrontare salite o discese. Oggi, in occasione del “Palio del Velluto” viene eseguita una gara riservata alle donne consistente nel trasportare il pane sulla tavola come ai vecchi tempi.


Tavola da trasporto del pane
(n. i. 52)

provenienza: Leonessa
materiale: legno di pioppo
descrizione: tavola usata per trasportare il pane. Si compone di due tavole appaiate unite, nel retro, da due traversine
misure: cm. 113 x cm. 46; spess. mm. 18
stato di conservazione: buono
acquisizione: dono di Maria Zelli
anno: 2003

La coperta per il trasporto.
Sui filoni stesi sulla tavola da trasporto, veniva steso un panno di lino, o di canapa di forma rettangolare detto “mantile” o “mandile” (termine derivato dallo spagnolo mandil: “tovaglia”) e anche “bandinèlla” (nome dovuto alla forma rettangolare allungata).

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Saturday, 22 March 2014 00:00

Forno e cottura

Cottura: la gestione comunitaria del forno da pane.
Per quanto riguarda il forno da pane, vi è da distinguere tra forni privati, gestiti da una sola famiglia o da un gruppo di famiglie congiunte da vincoli di parentela, e forni pubblici costruiti dal Comune e gestiti dalle famiglie residenti in un borgo, o nelle frazioni dei paesi. Nel primo caso, quando si trattava di moduli abitativi rurali isolati nei campi (casali) il forno era separato dal fabbricato della casa, formava un corpo a sé ed era ubicato nelle adiacenze della cucina. Nelle case rurali aggruppate nei borghi, il forno a gestione famigliare era alloggiato in un piccolo corpo in muratura addossato al corpo della casa. In alcuni casi, nei moduli abitativi muniti di accesso esterno mediante scala addossata al fabbricato, il forno poteva essere ubicato nella loggetta coperta sita all’estremità superiore della scala d’accesso, di rimpetto alla porta della cucina, la quale nelle case rurali costituiva la porta d’entrata alla casa. 

I forni gestiti comunitariamente dagli abitanti di un borgo, o d’una frazione, posti in genere al margine d’una piazzetta, costituiscono un modulo architettonico a sé stante coperto da tetto a doppio spiovente sul quale s’innalza il comignolo. Il forno in cui avviene la cottura del pane, costruito in muratura con pianta circolare e coperto a volta, con piano in mattoni – chiuso da sportello asportabile in ferro – è preceduto da un vano coperto il quale reca sul lato destro e sul sinistro una serie di tavole poggiate su sostegni di legno murati alla parete e destinata ad appoggiarvi le tavole coi pani prima e dopo la cottura. In alcuni forni, sul retro, si apre una piccola legnaia destinata ad alloggiare le fascine e il legname minuto occorrente alla cottura.

La legna necessaria alla cottura era portata sul posto dalle famiglie che si erano accordate per cuocere il pane in quel giorno. Una volta arse le fascine e scaldato convenientemente il piano di cottura, mediante una pala si provvedeva a sistemare le braci tutt’attorno al perimetro dello stesso e, mediante apposito bastone fornito di stracci, si provvedeva altresì a liberare il piano di cottura da residui di brace o carboni che avrebbero potuto inserirsi nella massa del pane. Chiuso lo sportello di ferro, si attendeva la cottura.

«Verso la fine degli anni Sessanta del secolo scorso, un po’ dovunque, i forni pubblici utilizzati dagli abitanti dei borghi smisero di fumare. Il declino di quest’antichissima, tradizionale incombenza femminile, si deve alla maggior disponibilità di denaro liquido, alla consistenza molto più esigua dei nuclei famigliari e alla più scarsa disponibilità di tempo. A ciò, va aggiunto il consistente spopolamento dei borghi rurali che rendeva difficile svolgere un lavoro comunitario come quello richiesto dalla gestione inter-famigliare del forno pubblico. Occorre, inoltre, tener presente che la panificazione richiede, da parte della massaia, un impegno abbastanza gravoso in termini di ore lavorative. Insomma, il pane bianco acquistato dal fornaio rientra nel numero delle “commodità” cittadine adottate progressivamente dal contado a partire dal dopoguerra». (Chávez 2012: 142).

La cottura del pane, operazione delicata da cui dipendeva il buon esito della panificazione e la provvista bisettimanale del pane quotidiano, era soggetta ad alcune precauzioni rituali di tipo apotropaico volte ad allontanare dal pane in cottura i temuti influssi della fascinazione: il malocchio e l’invidia (l’òcchiu; la ‘mmidia). Prima di disporre il pane sul piano di cottura, rivolte verso le massaie si segnavano e, introducendo il pane, dicevano “Nel nome del Padre”, oppure “Il Signore ti benedica”; una volta chiuso lo sportello del forno, vi tracciavano sopra una croce usando la mano, o la pala da forno, e alcuni erano soliti pronunciare la formula: “San Martino l’accresca”.

Tra gli usi magico-terapeutici del forno da pane vi è da menzionare l’esposizione alla bocca del forno, mentre il pane era in cottura, dei bambini “allupati” / “allupiti”: neonati partoriti da donne che, essendo incinte, s’erano cibate delle carni di animali sgozzati dal lupo. Si credeva che i neonati acquisissero caratteristiche lupine che si manifestavano in una innaturale aggressività e irrequietezza. L’esposizione al calore e al profumo del pane in cottura avrebbero neutralizzato il “veleno” inoculato dal lupo.
               

Strumenti usati per infornare il pane.
Gli strumenti utilizzati per trasportare il pane fino al forno e per la sua cottura erano: la tavola da trasporto; il cercine per sistemare la tavola sulla testa; il tessuto con cui il pane veniva coperto durante il trasporto al forno e dal forno per preservarlo dalla polvere e, d’estate, dalle mosche; la pala da forno usata per infornare e sfornare; il mondatoio per tener pulito il piano di cottura.


Cottura sotto la brace del focolare
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Alternativa alla periodica cottura del pane nel forno, la cottura di focacce sotto la brace del focolare domestico era usata occasionalmente.

Cottura sotto la teglia.
Specie in occasioni festive, alcuni dolci o focacce erano cotte non nel forno ma sul piano del focolare usando come copertura una teglia. Questo tipo di cottura, non esente da una connotazione sacrale, ripete l’antico metodo usato nella Roma antica per preparare le offerte (liba) destinate agli dèi. Si ricordi, a questo proposito la derivazione dalla parola “teglia” – dial. umbro “tegghia” – dal latino tegula. (A Leonessa “sóru” dal lat. solum).

Cottura sotto la cenere.
Era in genere riservata alle saporite patate prodotte sull’altopiano leonessano. Dopo averle disposte sul piano del focolare, le si ricopriva con brace e uno strato di cenere fino a cottura ultimata.


Uso devozionale del pane
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Per quanto riguarda l’uso del pane in contesti devozionali, ricordiamo i principali:

Il pane dei morti:
nella festa d’Ognissanti venivano preparati da ogni famiglia dei piccoli pani contrassegnati da una croce. Al mattino, i poveri e i bambini si recavano di casa in casa e, in cambio della recitazione di un padrenostro e di un requiem per i defunti della famiglia, ottenevano un “pane de li mórti”. Un tempo, nel Leonessano, si usava preparare per Ognissanti dei dolci speciali detti “le fave de li morti”, sostituto delle zuppe di fave secche distribuite altrove ai poveri nella medesima occasione.

Il pane di S. Nicola:
in alcune frazioni, come ad esempio ad Albaneto e a Vallunga, in occasione della festa di S. Nicola di Mira, poi di Bari, si preparavano le “pagnottèlle de san Nicola”. Per cuocere questi piccoli pani, durante la novena in onore del santo, che iniziava il 26 novembre, si raccoglievano solo cespugli spinosi e rovi, trascinati in fasci fino ai villaggi. Nello stesso periodo si macinava il “fiore” del grano, ossia il grano scelto da utilizzare per la preparazione delle pagnottelle della quale erano incaricate solo ragazze vergini. Le verginélle lavoravano di notte e avevano diritto alla colazione con latte e caffè e biscotti o pane abbrustolito, oltre a ricevere in dono razioni di caldarroste, o biscotti con un goccio di vino. Ogni famiglia sui faceva carico della preparazione di una certa quantità di pani sui quali veniva apposto il segno SN (S. Nicola) sormontato dal profilo d’una mitria vescovile. Nel forno veniva acceso il fuoco di rovi e le vergini che avevano preparato il pane dovevano portarlo al forno sulle apposite tavole poggiate sulla testa ma senza il cercine. Se sullo sportello di ferro del forno, durante la cottura, si formavano goccioline di condensa, il segno era interpretato in senso fausto poiché quelle goccioline erano assimilate alla celebre “manna” che, a Bari, distilla dalle ossa del santo protettore delle vergini povere. Le ceste coi pani venivano portate in chiesa per esservi benedette nel giorno della festa del santo, quindi da ogni famiglia le pagnottelle erano distribuite in dono.

Nella frazione di Vallunga, il 10 settembre, festa di S. Nicola da Tolentino, venivano preparati speciali pani formati ognuno da tre o sei piccole masse congiunte di pasta lievitata. Cotto nel forno, contenuto in cesti di vimini adorni di fiocchi rossi, era benedetto in chiesa e quindi distribuito.

Il pane di S. Antonio abate.
In occasione della festa di S. Antonio abate, cui il popolo aveva attribuito il ruolo di patrono degli animali domestici, si preparavano piccoli pani che, una volta benedetti, venivano somministrati agli animali in caso di malattia.

Per quanto riguarda il generale rispetto nei confronti del pane, ci limitiamo a ricordare alcuni tabù: porzioni di pane, anche piccolissime, molliche, frammenti non potevano essere gettati via. In genere venivano riutilizzati come mangime per gli animali. Si credeva che, dopo la morte, lo spirito di chi avesse gettato via pezzi di pane sarebbe stato costretto a raccoglierli in canestri senza fondo.

Quando si poggiava il pane sulla tavola da pranzo, o nel mobile destinato alla sua custodia, era vietato poggiarlo “all’incontrario”, ossia disponendo verso l’alto la parte che aveva poggiato sul piano di cottura. Infrangere questo tabù era considerato colpa grave foriera di disgrazie.

Quando per caso un pezzo di pane cadeva al suolo, lo si raccoglieva e, prima di riporlo o di usarlo, lo si baciava.

 

 

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Saturday, 22 March 2014 00:00

I setacci

I setacci (sotacci).
Nella cucina rurale non mancavano mai i setacci da farina. Il setaccio tradizionale era composto da una fascia di legno di faggio, alta una quindicina di centimetri, piegata a formare un cerchio. Le estremità della fascia erano sovrapposte e inchiodate. Il cerchio veniva infilato all’interno di una fascia inferiore, alta circa 5 cm.. Tra la fascia esterna e l’interna era tenuta ferma la rete metallica che, nei setacci più moderni, fungeva da vaglio. I setacci più antichi, invece della rete impiegavano una pelle di porco forata con forellini di diametro variabile a seconda del tipo di vaglio che si desiderava ottenere.

 

Setaccio a trama fine sotacciu (n. i. 57)

provenienza: Leonessa
materiale: legno di faggio e rete metallica
descrizione: setaccio cilindrico a fasciatura lignea con fascia inferiore di rinforzo
misure: diam. cm. 30; h. cm. 12,5; fascia di rinforzo: h. cm. 5
stato di conservazione: ottimo
acquisizione: dono di Silvana Pasquali
anno: 2013

  

Setaccio a trama fine sotacciu (n. i. 58)

provenienza: Casale dei Frati (Leonessa)
materiale: legno di faggio e maglia metallica
descrizione: setaccio cilindrico a fasciatura lignea con fascia inferiore di rinforzo
misure: diam. cm. 41,5; h. cm.13,4; fascia di rinforzo: h. cm. 5
stato di conservazione: buono
acquisizione: dono di Rosa Olivieri
anno: 2011

 

Piccolo setaccio a trama fine sotacciu (n. i. 177)

provenienza: Leonessa
materiale: legno di faggio, rete metallica
descrizione: staccio da farina (usato per dolci)
misure: h. cm. 9; diam. cm. 20; fascia di rinforzo: h. cm. 4
stato di conservazione: ottimo
acquisizione: dono di Loredana e Ovidio Iacorossi
anno: 2013

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Il pane

La produzione del pane.
La panificazione era una delle attività più importanti della massaia tradizionale, attività non esente da una profonda connotazione sacrale. Il pane destinato all’alimentazione della famiglia veniva preparato ogni quindici giorni circa e richiedeva il lavoro comunitario delle donne di casa. Avvolti in panni o canovacci e custoditi nella parte inferiore della madia o nella credenza, fino a un paio di settimane dalla cottura i filoni di pane non diventavano eccessivamente duri. La forma di pane più in uso a Leonessa era ed è il “filone” del peso di circa due chili, rigorosamente sciapo, come si usa anche nel Reatino.

Il lievito.
«Per approntare il lievito da pane (lèvitu), si separava una porzione della massa già preparata e la si lasciava riposare per diversi giorni in una scodella, chiusa dentro la madia. Al momento di usarlo, si stemperava il lievito con un poco di acqua tiepida. Un tempo, quando non se ne aveva in casa, si usava chiedere in prestito il lievito ai vicini i quali lo fornivano volentieri, così come al mattino fornivano la brace per attizzare il fuoco, giacché il pane e il fuoco, per l’intensa sacralità di cui partecipano, costituiscono simboli pregnanti del vivere consociato, ossia del modello di vita considerato pienamente “umano”. Prima di riporre la massa destinata a produrre il lievito, si usava tracciarvi sopra il segno della croce con la mano, o col raschiamadia di ferro. Si credeva che, senza questa precauzione, il potere della fascinazione – l’invidia e il malocchio – avrebbero potuto impedire la formazione del lievito. Col passare degli anni, le massaie iniziarono a comprare dal droghiere lievito per dolci di preparazione industriale (le cartine), mentre per fare il pane continuarono ancora per lungo tempo a prepararlo in casa». (Chávez 2012: 141-142).

Preparazione della massa.
Per preparare l’impasto si usava il piano d’appoggio che formava il fondo della parte superiore della madia, o arca. Per lavorare con maggior comodità, si ribaltava la tavoletta frontale della madia.

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