Museo Civico di Leonessa (Ri)   -   (+39) 0746-923212

Filatura (2)

Sezione dedicata alla lavorazione dei filati

Canapa

Tuesday, 01 August 2017 21:17

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La canapa veniva seminata a primavera, quando col tepore del sole la terra s’era “scallata”. Il seme della canapa era detto, in dialetto, “cannavicciu”. Dato che gli uccelli ne andavano ghiotti, una volta sparso il seme bisognava ricoprirlo in fretta con la zappa e quindi proteggere adeguatamente il campo mediante spaventapasseri.

Verso la fine di agosto si procedeva al primo raccolto della canapa “fémmona”, la canapa di colore biancastro che maturava per prima. Terminato il raccolto, gli steli di canapa erano sparsi sopra le stoppie nei campi in cui si era mietuto il fieno perché asciugassero al sole. Trascorsi alcuni giorni, si procedeva al secondo raccolto, quello della canapa “maschiu”, di colore avana. Raccolta in mannelli (mannocchi) li si batteva mediante una verga sottile e flessibile (lu bastunciju) al fine di liberarla dai semi aderenti agli steli. Una volta mondata, disfatti i mannelli, la canapa-maschio era stesa come la precedente sulle stoppie perché asciugasse al sole. Si preferiva prolungare l’asciugatura degli steli fino a quando le condizioni atmosferiche lo permettevano. Dopo la metà d’agosto, sull’altopiano leonessano, sono frequenti le prime piogge che producono un brusco cambio climatico.

Una volta asciutta, la canapa veniva di nuovo legata in piccoli fasci e conservata al coperto nel fienile o nella rimessa dei carri agricoli e degli attrezzi.

Approfittando del forno caldo, dopo la cottura del pane, si provvedeva a un’ulteriore essiccazione disponendo i mannelli di canapa sul piano caldo del forno e lasciandoveli per un paio di giorni dopo aver chiuso la bocca del forno. Nel forno, la canapa non solo perdeva l’umidità superflua ma induriva anche le fibre: in dialetto, “se ‘ncrocchiava”.

Riposta di nuovo in luogo coperto e asciutto, approfittando delle belle giornate dell’autunno e dell’inverno, le fibre della canapa venivano mondate passandole nella gramola, o maciulla (la macenuria). Le fibre di canapa, tirate con forza per un capo e costrette a passare nelle scanalature interne della gramola, perdevano i “cocci”, i tegumenti dei semi rimasti aderenti alla fibra. Questa operazione, molto faticosa, era riservata a due uomini robusti di cui uno alzava e abbassava la pesante parte superiore della gramola mentre l’altro tirava le fibre.

Una volta passata attraverso la gramola – in dialetto “macenuriata” – si provvedeva a “costare” la canapa, ossia a pettinarla mediante pettini in ferro. Per compiere più agevolmente questa operazione, si legavano le estremità dei fasci di fibre a un gradino della scala usata per salire al fienile.

Una volta pettinata, la canapa veniva “arrocciata”, legata a formare delle crocchie. A questo punto, le fibre erano sottoposte alla cardatura finale, eseguita in genere da un cardatore che usava uno scardasso a mano formato da due tavole munite di chiodi ricurvi.

Prima di essere filata mediante la rocca e il fuso, la canapa veniva fatta bollire assieme alla cenere per renderla perfettamente pulita.

Dalla canapa si ottenevano due tipi di fili: “lu tumintu”, un filo più grossolano, e “li nòcchi”, fili più fini e di migliore qualità. I fili di canapa erano dunque avvolti sulla spoletta del telaio per ottenere i tessuti usati per lenzuola e indumenti. A proposito del filo più grossolano, lu tumintu, il nome dilettale deriva dal latino tomentum, nome dato nell’antica Roma all’imbottitura del cuscino realizzata con fieno o foglie di canna mentre i più ricchi usavano lana e persino piume di cigno.

 

La tela de ‘na ‘òte era fatica: questa poesia, composta da Paolo Santini di Terzone, rievoca e riassume con uno stile fluido e suggestivo il ciclo tradizionale di lavorazione della canapa, l’arte antica delle filatrici e tessitrici dell’altopiano.

La tela de ‘na ‘òte era fatica:
non se cumpria mica allu mercatu,
servia la pazienza e l’arte antica
e ‘n pezzettillu de terra ben curatu.
Assieme co’ la mamma, o co’ ‘n’ amica,
dopu d’avene tuttu somentatu
aspettianu ‘mpazienti la matina
che verde se facia la cannaina. 1)

Po’ càrpila, reggira, remucina: 2)
se quante cose pora ggente nóstra
ch’a dille tutte non ce se ‘ndovina
pe’ quantu lavorata era ‘sta ggiostra.
Prima allu furnu, doppu a ‘na cantina
co’ ‘na macinuletta 3) a mette ‘n mostra
la parte più gentile, più preziusa:
l’anima de la pianta e de la spusa. 4)

E nasce lo tomindu 5) che se pusa
sopre a ‘na conocchia abituata
e mentre che l’arriccia, po’ lu ‘nfusa 6)
‘ntonenno sottovoce ‘na cantata.
Se lecca po’ le dita come s’usa: 7)
che al fin de l’opra sembra ‘mascarata
e coscì stracca, co’ illu stranu visu
a illi munelli regalía ‘n sorrisu.

Lu filu è fattu, lu telaru è tisu,
mo è ggiunta l’ora de ‘ntramà’ la tela:
mo de l’artista se vede lu pisu, 8)
se li nodilli 9) e le brutture cela.
Quanno lu materiale era precisu,
venia ‘n prodottu simile a ‘na vela
ch’ancora va girennu e spesso vedo
tra li recordi de ‘n vecchiu corredo.

_____

1) cannaina / cannavina: l’appezzamento di terreno, finemente lavorato con la zappa e rifinito a rastrello, dove si seminava la canapa; li cannavicci, invece, erano i frutti della canapa che i ragazzi mangiavano crudi e qualcuno cuoceva
2) càrpila ... remucina: raccoglila .... smuovi la canapa per farla seccare
3) macinuletta: lo strumento di legno per cardare la canapa ed eliminare i cocci
4) i rotoli di tessuto grezzo di canapa (“li ròduli”) facevano parte del corredo della sposa
5) tomindu / tomentu: le fibre della canapa pronta per la filatura (lat. tomentum)
6) lu ‘nfusa: dopo averla attorta con le dita, passa la canapa dalla conocchia al fuso
7) per filare le donne si umettavano le dita con la saliva; quando c’era molta canapa da filare, per aumentare la salivazione usavano addentare mele acerbe oppure delle mele selvatiche (schianchi)
8) pisu: il peso, in senso traslato: l’abilità della filatrice
9) nudilli: i noduli prodotti dall’aggiunta di nuova canapa dalla conocchia al filo del fuso

Lana

Tuesday, 01 August 2017 20:58

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Le greggi di ovini da lana sono state da sempre una delle risorse più importanti dell’economia leonessana. Fin da tempi antichi, Leonessa importava lana pregiata che giungeva in Francia e nelle Fiandre attraverso il mercato di Ascoli Piceno o il mercato di Norcia percorrendo, dunque, la Salaria o l’antica “via Nursina” che da Norcia, passando per Grotti, giungeva a Spoleto. Parte della lana esportata all’estero era lavorata per ottenere i pregiati velluti delle Fiandre: il “Palio del Velluto”, antica festa tradizionale di Leonessa che ancor oggi si celebra il giorno dei SS. Pietro e Paolo, ricorda quel fiorente commercio. Della tosatura delle pecore si occupavano “specialisti” detti “carosini” – “carosà” significa “tosare” – i quali, verso l’inizio dell’estate, salivano sull’altopiano leonessano provenienti dall’Ascolano o dalla piana reatina.

 

Il lavaggio della lana grezza.
Un primo lavaggio della lana veniva effettuato al momento di tosare le pecore: i “carosini” costringevano piccoli gruppi di pecore a passare attraverso un passaggio obbligato, fatto di rami o di reti, in modo da spingerle nei “bottegoni”: le pozze d’acqua più o meno profonde formate dai locali torrenti e, in specie, dal Corno, o Tascino. Dopo la tosatura, i proprietari della lana provvedevano a lavarla. Il procedimento tradizionale consisteva nel sistemare la lana in capaci caldai contenenti acqua calda e soda. L’acqua con la soda veniva cambiata ogni giorno, per diversi giorni, in modo da eliminare le incrostazioni di terra e sterco. Il procedimento più breve consisteva nel far bollire a lungo la lana sporca assieme alla soda. Una volta pulita, la lana era portata al lavatoio, o al torrente, per essere lavata in abbondante acqua. Stesa sopra dei teli, la lana bagnata veniva lasciata all’aria aperta, provvedendo a voltarla di tanto in tanto, perché asciugasse perfettamente. Una volta asciutta, le donne provvedevano a rendere soffici i biocccoli sbrogliandoli a mano uno ad uno. Alla fine di questo processo, la lana era pronta per la vendita, o per l’uso famigliare che la impiegava soprattutto per ricavarne il filo per tessere indumenti. L’uso del materasso di lana si diffuse tardi nella società rurale, assieme all’uso della rete metallica da branda, sulla scia della moda cittadina.

                                                    

Cardatura e utensili per cardare.
Per poter essere filata mediante il fuso, la lana doveva essere previamente cardata in modo da rendere le fibre disponibili alla filatura. Per la cardatura si usava uno scardasso manuale formato da due tavolette munite di chiodi sulle facce interne. Più raramente, specie per cardare la lana dei materassi, si ricorreva all’opera di cardatori specializzati – detti “falalani” – provenienti dall’Abruzzo. Questi ultimi usavano uno scardasso a banco.

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