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Friday, 27 October 2017 17:41

Le lenzuola di canapa e pagliericcio

Le lenzuola di canapa (le linzola).
Le tradizionali lenzuola, celebri per la loro virtuale indistruttibilità, erano tessute sul telaio domestico usando la canapa. Caratteristica di queste lenzuola era la ruvidezza al tatto, un tempo considerata un inconveniente, oggi rivalutata perché, a quanto sembra, aiuta ad attivare la circolazione sanguigna.

Lu ròdulo”. Con questo nome era conosciuto il rotolo di tessuto di canapa portato in dote dalla sposa. Li ròduli formavano parte imprescindibile del corredo nuziale. Il numero degli stessi, ovviamente, variava a seconda delle possibilità economiche della famiglia della ragazza. La pezza di canapa tessuta sul telaio domestico, lunga circa due metri e larga una settantina di centimetri, veniva ripiegata a metà nel senso della lunghezza e avvolta a formare un rotolo. Il numero di rotoli del corredo, per tradizione, doveva essere sempre dispari, a eccezione del numero dodici. Poche, però, erano le ragazze che potevano permettersi la quantità di rotoli necessaria a eguagliare questo numero fausto propiziatore di abbondanza.

Rotolo nuziale di canapa ròdulo (n. i. 239MA)

provenienza: Cupra (A.P.)
materiale:   canapa
descrizione: rotolo facente parte di un antico corredo nuziale. Il telo di canapa, tessuto al telaio, è piegato in due e arrotolato. Si conservano le cuciture originali
misure: lg. cm. 34; diam. cm. 16
acquisizione: dono di Vermiglio Ricci
stato di conservazione: ottimo

anno: 2015


Iniziali ricamate su lenzuolo di canapa

 

Il pagliericcio (lu pajò’).
Il paglione consisteva in un sacco di tessuto di canapa di grandezza sufficiente a coprire il tavolato, munito di due aperture laterali in cui infilare le mani per sprimacciare le foglie di granturco che fungevano da imbottitura. Prima ancora del granturco, si usava riempire il paglione con paglia (da cui il nome). Chi non coltivava il granturco, otteneva le brattee secche in ricompensa del lavoro della sgranatura offerto ai coltivatori. I materassi di lana ovina erano considerati un genere di lusso, dato che la lana prodotta dal piccolo gregge proprietà della famiglia era venduta, o scambiata.

La “scartocciatura” del granturco e l’usanza de “lu tùturu rusciu
Per riempire il pagliericcio, si usava la paglia oppure le brattee del granturco, pianta che non alligna molto bene a Leonessa per via del clima. Per procurarsi le “foje de lu granturcu” si partecipava al lavoro comunitario della sfogliatura e sgranatura, operazione detta “scartoccià”. Come in tutti i lavori che contavano con la partecipazione volontaria dei membri delle comunità rurali, la prestazione d’opera era ricompensata con una merenda, o una cena, qualche bicchiere di vino e le fruscianti “foje” per riempire il pagliericcio.

«Durante il lavoro di sgranatura del granturco chi avesse trovato una pannocchia rossa (tùturu rusciu) avrebbe ottenuto l’ambito privilegio di baciare, fra le presenti, la ragazza di suo gradimento. Questa, peraltro, in omaggio alle strette norme che regolavano l’etica sociale e per evitare le “male lengue”, doveva mostrare un’ostentata ritrosia come segno di modestia e di buona educazione. Sottolinea argutamente un nostro informatore: “Magari quella se vergognava, perché anticamente non se usava ‘n pubblico: pe’ potella bacià o la dovevi pijà de prepotenza, o costringela. A parte ch’era contenta lo stesso, però pe’ quanto sia facea finta, magari, de no esse contenta de fronte a la gente”» (Polia-Chávez 2002: 245).

Un’usanza simile era in vigore nelle Marche durante la sfogliatura (scardezzatura) del granturco. Qui la pannocchia rossa era detta “lu pupu rusciu”.
In Spagna, nella regione di Alpujarra, se a trovare la pannocchia rossa era una ragazza, questa doveva toccare col coltello la fronte dei ragazzi che partecipavano alla sfogliatura, se invece il fortunato era un ragazzo, aveva il diritto di abbracciare tutte le ragazze presenti: un “abbraccio” che si riduceva a un casto colpetto di mano sulla spalla (Brenan 2001: 85).

 

Published in La casa rurale
Tuesday, 01 August 2017 21:17

Canapa

La canapa veniva seminata a primavera, quando col tepore del sole la terra s’era “scallata”. Il seme della canapa era detto, in dialetto, “cannavicciu”. Dato che gli uccelli ne andavano ghiotti, una volta sparso il seme bisognava ricoprirlo in fretta con la zappa e quindi proteggere adeguatamente il campo mediante spaventapasseri.

Verso la fine di agosto si procedeva al primo raccolto della canapa “fémmona”, la canapa di colore biancastro che maturava per prima. Terminato il raccolto, gli steli di canapa erano sparsi sopra le stoppie nei campi in cui si era mietuto il fieno perché asciugassero al sole. Trascorsi alcuni giorni, si procedeva al secondo raccolto, quello della canapa “maschiu”, di colore avana. Raccolta in mannelli (mannocchi) li si batteva mediante una verga sottile e flessibile (lu bastunciju) al fine di liberarla dai semi aderenti agli steli. Una volta mondata, disfatti i mannelli, la canapa-maschio era stesa come la precedente sulle stoppie perché asciugasse al sole. Si preferiva prolungare l’asciugatura degli steli fino a quando le condizioni atmosferiche lo permettevano. Dopo la metà d’agosto, sull’altopiano leonessano, sono frequenti le prime piogge che producono un brusco cambio climatico.

Una volta asciutta, la canapa veniva di nuovo legata in piccoli fasci e conservata al coperto nel fienile o nella rimessa dei carri agricoli e degli attrezzi.

Approfittando del forno caldo, dopo la cottura del pane, si provvedeva a un’ulteriore essiccazione disponendo i mannelli di canapa sul piano caldo del forno e lasciandoveli per un paio di giorni dopo aver chiuso la bocca del forno. Nel forno, la canapa non solo perdeva l’umidità superflua ma induriva anche le fibre: in dialetto, “se ‘ncrocchiava”.

Riposta di nuovo in luogo coperto e asciutto, approfittando delle belle giornate dell’autunno e dell’inverno, le fibre della canapa venivano mondate passandole nella gramola, o maciulla (la macenuria). Le fibre di canapa, tirate con forza per un capo e costrette a passare nelle scanalature interne della gramola, perdevano i “cocci”, i tegumenti dei semi rimasti aderenti alla fibra. Questa operazione, molto faticosa, era riservata a due uomini robusti di cui uno alzava e abbassava la pesante parte superiore della gramola mentre l’altro tirava le fibre.

Una volta passata attraverso la gramola – in dialetto “macenuriata” – si provvedeva a “costare” la canapa, ossia a pettinarla mediante pettini in ferro. Per compiere più agevolmente questa operazione, si legavano le estremità dei fasci di fibre a un gradino della scala usata per salire al fienile.

Una volta pettinata, la canapa veniva “arrocciata”, legata a formare delle crocchie. A questo punto, le fibre erano sottoposte alla cardatura finale, eseguita in genere da un cardatore che usava uno scardasso a mano formato da due tavole munite di chiodi ricurvi.

Prima di essere filata mediante la rocca e il fuso, la canapa veniva fatta bollire assieme alla cenere per renderla perfettamente pulita.

Dalla canapa si ottenevano due tipi di fili: “lu tumintu”, un filo più grossolano, e “li nòcchi”, fili più fini e di migliore qualità. I fili di canapa erano dunque avvolti sulla spoletta del telaio per ottenere i tessuti usati per lenzuola e indumenti. A proposito del filo più grossolano, lu tumintu, il nome dilettale deriva dal latino tomentum, nome dato nell’antica Roma all’imbottitura del cuscino realizzata con fieno o foglie di canna mentre i più ricchi usavano lana e persino piume di cigno.

 

La tela de ‘na ‘òte era fatica: questa poesia, composta da Paolo Santini di Terzone, rievoca e riassume con uno stile fluido e suggestivo il ciclo tradizionale di lavorazione della canapa, l’arte antica delle filatrici e tessitrici dell’altopiano.

La tela de ‘na ‘òte era fatica:
non se cumpria mica allu mercatu,
servia la pazienza e l’arte antica
e ‘n pezzettillu de terra ben curatu.
Assieme co’ la mamma, o co’ ‘n’ amica,
dopu d’avene tuttu somentatu
aspettianu ‘mpazienti la matina
che verde se facia la cannaina. 1)

Po’ càrpila, reggira, remucina: 2)
se quante cose pora ggente nóstra
ch’a dille tutte non ce se ‘ndovina
pe’ quantu lavorata era ‘sta ggiostra.
Prima allu furnu, doppu a ‘na cantina
co’ ‘na macinuletta 3) a mette ‘n mostra
la parte più gentile, più preziusa:
l’anima de la pianta e de la spusa. 4)

E nasce lo tomindu 5) che se pusa
sopre a ‘na conocchia abituata
e mentre che l’arriccia, po’ lu ‘nfusa 6)
‘ntonenno sottovoce ‘na cantata.
Se lecca po’ le dita come s’usa: 7)
che al fin de l’opra sembra ‘mascarata
e coscì stracca, co’ illu stranu visu
a illi munelli regalía ‘n sorrisu.

Lu filu è fattu, lu telaru è tisu,
mo è ggiunta l’ora de ‘ntramà’ la tela:
mo de l’artista se vede lu pisu, 8)
se li nodilli 9) e le brutture cela.
Quanno lu materiale era precisu,
venia ‘n prodottu simile a ‘na vela
ch’ancora va girennu e spesso vedo
tra li recordi de ‘n vecchiu corredo.

_____

1) cannaina / cannavina: l’appezzamento di terreno, finemente lavorato con la zappa e rifinito a rastrello, dove si seminava la canapa; li cannavicci, invece, erano i frutti della canapa che i ragazzi mangiavano crudi e qualcuno cuoceva
2) càrpila ... remucina: raccoglila .... smuovi la canapa per farla seccare
3) macinuletta: lo strumento di legno per cardare la canapa ed eliminare i cocci
4) i rotoli di tessuto grezzo di canapa (“li ròduli”) facevano parte del corredo della sposa
5) tomindu / tomentu: le fibre della canapa pronta per la filatura (lat. tomentum)
6) lu ‘nfusa: dopo averla attorta con le dita, passa la canapa dalla conocchia al fuso
7) per filare le donne si umettavano le dita con la saliva; quando c’era molta canapa da filare, per aumentare la salivazione usavano addentare mele acerbe oppure delle mele selvatiche (schianchi)
8) pisu: il peso, in senso traslato: l’abilità della filatrice
9) nudilli: i noduli prodotti dall’aggiunta di nuova canapa dalla conocchia al filo del fuso

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