Introduzione al "Museo"
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Jul 2017
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Il Museo Demo-Antropologico
Dal reperto museale al vissuto
Attraverso l’illustrazione dei reperti museali della Sezione Demoantropologica, il Museo Civico di Leonessa, si propone di guidare il visitatore alla conoscenza delle tradizioni della società rurale dell’altopiano leonessano. A questi oggetti, muti testimoni della vita quotidiana, il nostro Museo si propone di dare un significato e una voce. Un reperto museografico non è solo il prodotto di una tecnologia: è espressione di una cultura che, oltre a usare l’oggetto per i fini cui è destinato, annette al medesimo valenze e significati che spesso esulano dall’uso pratico e dalla fisicità dell’oggetto stesso. Daremo di seguito alcuni esempi tratti dalle tradizioni locali.
Per la costruzione di un aratro a trazione animale, non era ritenuto sufficiente conoscere il tipo di legno da impiegare nelle varie parti dell’aratro: occorreva tagliare la pianta tenendo presenti le fasi lunari e l’epoca dell’anno per garantire al legno una durata ottimale. Oltre ad essere lo strumento mediante il quale si ricavava il grano per il pane quotidiano, l’aratro possedeva un proprio archetipo attinto alle leggende agiografiche: l’aratro di S. Isidoro protettore degli agricoltori, manovrato dagli angeli mentre il santo pregava. La croce formata dall’accoppiamento aratro–giogo, conferiva all’attrezzo agricolo una valenza sacrale la quale si traduceva in un atteggiamento di rispetto nei confronti del medesimo, o nell’osservazioni di certi tabù.
Il giogo da buoi, oltre all’uso ad esso pertinente, era utilizzato anche ad altri fini: per far sì che un cucciolo di cane da pastore cresca forte e coraggioso, lo si faceva passare nell’anello di ferro destinato ad alloggiare la bura dell’aratro o la stanga del carretto. L’origine di quest’usanza, un tempo diffusa nell’arco alpino, risale direttamente alla cultura celtica. Quando un moribondo stentava a morire e soffriva un’agonia lunga e dolorosa, per facilitare il trapasso gli si metteva sotto il cuscino un giogo: se si fosse trattato d’un castigo di Dio per aver spostato durante l’aratura i confini del proprio campo (“li tèrmini”) a scapito del vicino, l’agonia sarebbe risultata più breve. Una volta divenuto inutilizzabile, il giogo dei buoi non era arso, ma ritualmente sepolto.
La madia in cui si preparava e conservava il pane, era anche usata per guarire i neonati figli d’una madre che durante la gravidanza aveva mangiato carni di animali azzannati dal lupo trasmettendo al feto un “veleno” che rendeva il neonato “allupito”: rabbioso, aggressivo e insonne come il predatore notturno.
Gli attrezzi di ferro usati per il focolare domestico – la catena da fuoco, la paletta, le molle – quando il maltempo minacciava il raccolto, venivano gettati sull’aia per scongiurare grandinate e temporali.
L’umile ramazza domestica, posta capovolta dietro l’uscio, assurgeva al ruolo di potente amuleto che impediva le irruzioni notturne delle “sdreghe”. Come la ramazza, altri manufatti – il ferro di cavallo, l’asse della macina del mulino – erano usati come amuleti perché dotati del potere derivante dagli innumerevoli movimenti compiuti da questi ed altri oggetti. In virtù del privilegio dell’innumerabilità, difendevano la persona o la casa dai malefici in quanto il malintenzionato o la strega, per compiere il maleficio avrebbe dovuto contare esattamente i fili di saggina della scopa, o conoscere senza sbagliare quante volte un vecchio ferro da cavallo aveva colpito il terreno, oppure quante rivoluzioni aveva compiuto l’asse del mulino dal quale si era prelevata una scheggia da usare come amuleto.
Tradizioni popolari e mos maiorum
Chi aveva, in cielo o in terra, promulgato questa legge? Quando? Dove? Non lo si sa con certezza ma, quasi due millenni addietro, Catullo esortava l‘amante di turno a dargli mille baci e mille ancora in modo che gli invidiosi, non potendo conoscerne il numero esatto, non avrebbero potuto nuocere alla coppia. Alcune tradizioni, sovente liquidate come “superstizioni popolari”, possiedono una loro “dignità” storica che lo studioso di tradizioni popolari non solo non può trascurare ma, al contrario, è tenuto a porre debitamente in evidenza.
Alcuni oggetti rimandano a contesti culturali pre-cristiani, come la collana di corallo, ambito dono di fidanzamento e ornamento muliebre da esibire nei giorni di festa, la quale funzionava da amuleto contro l’invidia, magari del “vestito buono” o delle scarpe tirate a lucido per l’occasione. Il corallo indossato dalle nostre paesane svolgeva questa funzione ereditata dalla rossa pietra marina (gorgonia) formatasi, secondo il mito, dal sangue della Gorgone decapitata da Teseo.
L‘uso rituale di fave a novembre, durante l’Ottavario dei Defunti, rimanda ad antichissimi contesti mediterranei greco-romani. Il consumo di minestre di legumi in prossimità del Natale continua antiche usanze osservate nell’antica Roma nel corso dei Saturnalia.
L’uso di gocce d’olio d’oliva versate nell’acqua dalle nostre nonne per diagnosticare la presenza del malocchio, ha origine nell’antica Mesopotamia dove più di tremila anni addietro uno specialista in lacanomanzia, chiamato “baru”, eseguiva la stessa pratica al medesimo scopo.
Le massaie, ancora oggi, non metterebbero mai sotto la chioccia per la covata un numero pari di uova e alcune di esse piazzano ancora sotto la paglia un pezzo di ferro per proteggere la fecondità delle uova dal sinistro potere del tuono. Le medesime precauzioni sono contenute nella Naturalis Historia del naturalista romano Plinio, passato a miglior vita durante l’eruzione che seppellì Pompei. È da escludere, però, che le nostre massaie abbiano mai letto una sola pagina dell’opera di Plinio.
I colpi di fucile sparati un tempo dai nostri contadini contro le nuvole gravide di grandine continuavano un’usanza dei Goti i quali, nelle medesime circostanze, usavano scagliare frecce contro i nembi, usanza immortalata dalla xilografia che correda l’opera di Olao Magno sulle genti del nord (1555). Entrambe le usanze rimandano all’idea delle “spiritales nequitiae”, già formulata da s. Paolo, secondo la quale responsabili dei flagelli atmosferici sono i dèmoni occulti nei nembi.
Abbiamo citato solo alcuni dei numerosissimi esempi possibili, sufficienti però a far intendere come sia impossibile separare il reperto museale dall’universo culturale cui esso appartiene e dal quale è stato prodotto. La ricerca antropologica deve, dunque, tener presenti sia le espressioni materiali della cultura oggetto di studio che il corrispettivo “valore immateriale” in esse racchiuso: la visione del mondo propria a quella cultura.
Conoscere il pensiero di chi ha prodotto o ha usato l’oggetto permette di comprendere appieno il reperto museale nella sua funzione più autentica: quella di testimone. Altrimenti, nella sua nuda materialità, il reperto resterebbe muto e sarebbe ridotto a un fossile culturale. A un guscio privo di contenuto, oggetto di passeggera curiosità da parte del visitatore.
Nei moderni programmi di museografia è stato detto e ripetuto che il museo deve avere una vocazione didattica: deve permettere al visitatore disposto ad apprendere di concludere il suo percorso con qualche idea in più (e magari con qualche pregiudizio in meno). Il Museo Civico di Leonessa, nel suo piccolo, sta cercando di realizzare questo importante obiettivo.
Programma e metodo
Il catalogo ragionato delle nostre collezioni sarà edito in varie sezioni:
1. La casa e le attività domestiche
a. la casa rurale
b. la preparazione degli alimenti
c. trasporti domestici
d. il lavaggio della biancheria
e. i vestiti
2. I mestieri e le arti femminili
a. filatura
b. tessitura
c. ricamo
3. L’agricoltura
4. Allevamento e pastorizia
5. Fede e devozioni religiose
Ognuna delle sezioni è soggetta ad aggiornamenti periodici in quanto destinata a includere la presentazione di nuovi reperti, mano a mano che questi entreranno a far parte della nostra collezione museale, o saranno acquisiti nel corso delle nostre ricerche etnografiche.
Gli “Approfondimenti”, posti alla fine di questa sezione, intendono introdurre il visitatore alla conoscenza degli aspetti più peculiari delle tradizioni locali, aspetti che costituiscono il retroterra culturale dei reperti museali più significativi.
Per quanto riguarda il nostro criterio di ricerca, il Museo Civico interagisce attivamente con la popolazione locale la quale, gratuitamente, fornisce i reperti da esporre: strumenti usati un tempo dal donatore, o dai suoi antenati. In questo modo, oltre all’oggetto, siamo in grado di conoscere la storia del medesimo per bocca di chi se ne è servito nella vita quotidiana, o ne conosce perfettamente l’uso.
Non solo, la presenza nelle sale museali di ricordi aviti – ognuno dei quali reca il nome del donatore – vincola affettivamente le famiglie al Museo. Ciò ci permette di raggiungere uno dei nostri scopi principali: non sradicare il Museo dal territorio trasformandolo in un’entità lontana dai sentimenti e dall’attenzione della gente del luogo.
La popolazione di Leonessa, inoltre, collabora validamente al recupero del “patrimonio immateriale” fornendo dati riguardanti usi e tradizioni. I ragazzi della locale scuola media, previo un seminario introduttivo, hanno partecipato al recupero capillare dei dati con risultati eccellenti e hanno imparato a conoscere le tradizioni dei loro padri. Le sistematiche interviste ai vecchi protagonisti della vita rurale, registrate su supporto magnetico, forniscono prezioso materiale col quale, in più di un decennio di ricerche, siamo stati in grado di formare un consistente archivio che custodisce il “patrimonio immateriale” delle nostre genti: la loro identità culturale plasmata, secolo dopo secolo, nello svolgimento d’un percorso che fa di Leonessa un archivio della storia d’Europa.
La pratica del “museo diffuso”
Per quanto riguarda il criterio di selezione degli oggetti, oltre ai reperti custoditi nel nostro Museo, abbiamo ritenuto utile estendere la nostra scelta anche a oggetti significativi custoditi in collezioni private, o conservati nelle case di famiglie locali, nelle stalle, nei magazzini agricoli. In questo modo, abbiamo creato un “museo diffuso” che estende lo studio e l’esposizione a una vasta gamma di reperti. Così facendo, si giunge a conoscere meglio il patrimonio materiale senza ingombrare gli ambienti dedicati all’esposizione museale. Inoltre, non spostando gli oggetti dal luogo in cui sono custoditi, si rispetta e valorizza l’affetto che i nostri compaesani provano nei confronti degli antenati e dei loro ricordi.
Dal punto di vista etnografico, offrendo la fotografia e se occorre il disegno; stilando la descrizione accurata dell’oggetto; recuperando i dati concernenti l’uso dello stesso, si ottengono comunque dati validi per la scienza. Per quanto riguarda l’esposizione in questa sezione, dei reperti custoditi nel Museo, oltre all’immagine, si riporta una tabella con la scheda museografica. Per gli oggetti non appartenenti al Museo, l’immagine è corredata da brevi didascalie.
Sul nostro altipiano popolato da genti umbro-sabine, dopo la caduta dell’impero romano, si sono succeduti popoli appartenenti a culture germaniche quali i goti, i longobardi, gli svevi, i franchi. Leonessa / Gonessa è stata fondata nel 1278 dagli angioini. Dal XV secolo, con l’avvento degli aragonesi, ha subito l’influenza della cultura ispanica. Tracce evidenti di queste stratificazioni culturali si rinvengono nel dialetto e nei costumi del nostro altopiano. Ecco, dunque, che la ricerca demo antropologica diviene anche ricerca linguistica, storica e storico-religiosa.
L’Esposizione Archeologica Permanente “Nahar” e le campagne di scavo
La costituzione, inoltre, di una Esposizione Archeologica Permanente nel nostro spazio museale, inaugurata nell’agosto del 2016, e la prosecuzione delle ricerche iniziate nel 2001 con la scoperta di una tomba sabina a camera del II-I sec. a.C., inaugura un altro fecondo campo d’indagine volto alla ricostruzione dell’inesplorato passato di questo antico territorio.
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