Botticelle in legno
Botticelle in legno (cupélle).
La botticella fabbricata con doghe di legno, di forma oblunga e sezione ovoidale, munita di foro sul dorso, era usata per il trasporto dell’acqua e del vino.
Barilotti (cupellétte).
Per il trasporto dell’acqua, o del vino, da utilizzare durante il lavoro nei campi, si usava una botticella, detta “cupellétta”, costruita con doghe e cerchiata in ferro. Come il recipiente di maggior capacità – la cupélla – anche la cupellétta nella parte superiore era munita di foro da chiudere con tappo. Nella stagione calda e in specie durante i lavori della mietitura e della trebbiatura, l’acqua, in genere, veniva acidulata con aceto di vino per servire da efficace dissetante. Questo costume ereditava la tradizione militare romana della bevanda legionaria – la posca –preparata con acqua con aggiunta di aceto, e talvolta di uova.
Botticella da vino – cupellétta (n. i. 40)
provenienza: agro reatino
materiale: legno di castagno, cerchiature in ferro alle estremità e due al centro. La doga della parte superiore presenta un rialzo rettangolare munito di foro in cui s’incastra il tappo. Su una delle fiancate è incisa la sigla CC
misure: l. cm. 33; h. max. cm. 19,5; ai lati cm. 15,5 x cm. 10 (max.); spessore doghe: mm. 12; fasce di ferro: lg. cm. 2,3; capacità: ca. lt. 5
stato di conservazione: buono
acquisizione: dono di Leonida Carrozzoni
anno: 2011
Mestoli e ramaioli
Ramaiolo per attingere (rammèlla).
Appeso a un manico della conca, o adagiato a galleggiare sull’acqua, vi era il ramaiolo usato sia per bere che per attingere. Di rame, con manico in ferro desinente a forma di gancio, il manière era munito di uno o due beccucci, in quest’ultimo caso, per essere impugnato agevolmente anche dai mancini.
Mestolo da attingere, ramaiolo – rammèlla (n. i. 116)
provenienza: Ocre (Leonessa)
materiale: rame stagnato all’interno, manico in ferro ripiegato all’estremità, spianato a martello e fissato al mestolo con tre rivetti
descrizione: il mestolo è munito di due beccucci in modo da poter essere usato sia con la mano destra che con la sinistra
misure: l. tot. 42, 3; mestolo: diam. 12 (esclusi beccucci) e diam. 9; h. cm. 6,8; manico in ferro: l. cm. 32 (fino all’attacco al mestolo) lg. cm. 2, spess. mm. 4
stato di conservazione: ottimo
acquisizione: dono di Augusto Ciaglia
anno: 2007
Secondo un’antica tradizione, quando, al mattino, il ramaiolo che era stato lasciato poggiato sulla superficie dell’acqua si ritrovava affondato nella conca, si interpretava il fatto come un avvertimento da parte delle anime dei defunti bisognosi di suffragio. Il tema mitico della sete dei morti è presente già dall’antichità nella cultura greca e romana.
Ramaiolo. Dalla frazione di Ocre: l. cm. 42,3; diam. cm. 14 e cm. 11,3. Collezione privata
Recipienti per liquidi e solidi
Conca da acqua (la conca).
La conca in rame serviva al trasporto dell’acqua dal fontanile, o dal pozzo, alla casa. Veniva portata in equilibrio sulla testa appoggiandola su un cercine (ròccia) ottenuto arrotolando strisce di stoffa. La forma a clessidra –“conca a bicchiere”, o “conca a vaso”– è più moderna dell’antica conca abruzzese, anch’essa a due manici, dalle pareti appena rastremate (“conca tonda”). Come in questo esemplare, la conca poteva essere decorata mediante incisioni.
Conca – conca (n. i. 117)
provenienza: Ocre (Leonessa)
materiale: rame stagnato all’interno, manici in rame
descrizione: brocca di tipo abruzzese, interamente in rame compresi i manici a piattina fissati con rivetti di rame; il labbro è saldato al corpo; a un terzo dall’orlo, il diametro si restringe per poi allargarsi fino a raggiungere la misura del diametro della bocca, a una decina di centimetri dalla base si restringe di nuovo. Base concava. Il corpo della brocca è decorato a sbalzo da segmenti a zigzag affiancati da punti. L’orlo è rinforzato tutt’intorno da una piattina di rame alta cm. 2, fissata al labbro da rivetti, sulla quale è stato ribattuto per alcuni millimetri
misure: h. cm. 29; diam. alla bocca cm. 31,6 diam. alla base del labbro cm. 19,6; orlo: h. cm. 9
stato di conservazione: ottimo
acquisizione: acquistata a Stefano Marchetti
anno: 2009
Conca. Diam. alla bocca cm. 53; h. cm. 30. Ocre S. Paolo. Collezione privata
Conca di rame. In questa tipologia, la parte inferiore dei due manici non è fissata al corpo della conca. Diam. alla bocca cm. 30, h. cm, 30,2. Ocre S. Pietro. Collezione privata
La pasta
La pasta fatta in casa
La severa autarchia d’un tempo, contando con la disponibilità di farina di grano e con le uova del pollaio, imponeva la preparazione domestica della pasta. A questa attività la donna era avviata fin da bambina. La massa per la pasta era ottenuta con farina e acqua o, nelle ricette festive, con farina e uova fresche. La preparazione della pasta iniziava fin dalle prime ore del mattino in modo che avesse tempo di asciugare adeguatamente. Per questa operazione, si stendeva la pasta già tagliata su una tovaglia stesa sul letto in modo da lasciar libera la tavola da pranzo. L’unica pasta non prodotta in casa erano gli spaghetti della vigilia di Natale comprati allo spaccio assieme agli ingredienti per la salsa di magro: conserva di pomodoro e alici, o tonno.
Alla preparazione della pasta fatta in casa, ingrediente fondamentale dell’alimentazione campagnola, le donne erano avviate fin da bambine. Giunte in età da matrimonio, avevano ormai raggiunta una notevole abilità nella gestione ottimale delle tre fasi più delicate del ciclo di preparazione della pasta: l’impasto; la stesura uniforme e sottile della sfoglia; il taglio preciso e veloce. In entrambe le versioni, con o senza uova, la pasta fatta in casa permetteva una preparazione del tutto autarchica poiché le uova provenivano dal gallinaio domestico e la farina dal raccolto del grano. La pasta con le uova era preparata soprattutto nei giorni di festa, quella con acqua e farina per le ricette quotidiane. Per ottenere una massa compatta ed elastica, per un chilo di farina di grano tenero occorrono cinque uova; se si usa l’acqua, ne occorre circa mezzo litro. Attrezzi indispensabili sono: gli stacci (sodacci) per setacciare la farina; la tavola per stendere la sfoglia (spianatora); il matterello; il coltello pesante e ben affilato per il taglio delle diverse pezzature di pasta, usato anche per raschiare la tavola. Le massaie iniziavano il lavoro al mattino presto, prima di accudire gli animali e la domenica prima di recarsi a messa, in modo che la pasta avesse il tempo sufficiente per asciugarsi fino al momento della cottura. Ottenuto il taglio desiderato, si sparpagliava la pasta sulla spianatora leggermente cosparsa di farina e la si lasciava asciugare. Se la quantità era abbondante, si stendeva sul letto matrimoniale una tovaglia su cui si sistemava, spargendola, la pasta in modo che restasse esposta all’aria in modo uniforme.
Diamo una lista dei tagli di pasta fatta in casa più comunemente usati nella cucina leonessana.
“Fettuccine”: ottenute tagliando la sfoglia, lavorata fina, in strisce lunghe quanto la sfoglia. Dopo aver ripiegata varie volte la sfoglia su sé stessa, poggiando l’estremità ricurva del coltello sulla tavola, la donna premeva leggermente la sfoglia con le tre dita mediane della mano sinistra ed eseguiva il taglio basculando il coltello. Arretrando velocemente le dita, otteneva tagli uniformi. Tagliata tutta la sfoglia, si svolgevano le porzioni arrotolate spargendole sulla tavola. La larghezza media della “fettuccina” era di 0,5 – 1 cm.
“Tajulini”, tagliolini: ottenuti tagliando la sfoglia in strisce più sottili di mezzo cm., erano usati per brodo e minestre.
“Fregnacce”: quando si volevano ottenere tagli della stessa lunghezza, si ritagliava la sfoglia in modo da ottenere a grosso modo un quadrato. Le parti marginali della sfoglia scartate nella lavorazione, una volta tagliate in modo irregolare, erano usate per preparare le “fregnacce”, sorta di maltagliati da condire con un battuto di lardo, o sugoa base di conserva di pomodoro.
“Ciciarèlli”: usati per le minestre, si ottenevano tagliando a piccoli tocchi vermicelli di pasta piuttosto grossi ottenuti usando le palme delle mani.
“Sfusellati”, preparazione più laboriosa sfoggiata per le grandi occasioni, erano ottenuti avvolgendo la sfoglia tagliata in strisce sottili attorno a un ferro di sezione quadrata (si usavano all’uopo i ferri degli ombrelli).
“Strengozzi”, si stendeva la sfoglia meno sottile di quanto occorreva per i tagliolini e la si tagliava in strisce larghe due o tre millimetri, spesse altrettanto, la cui forma ricordava, appunto, quella delle stringhe di cuoio delle scarpe.
“Pasta ‘ntrisa”: si preparava tagliando a fettine la massa di farina e uova senza stendere la sfoglia. La si usava per minestre, o asciutta condita con battuto di lardo, o salsa di conserva di pomodoro e cacio pecorino.
“Frascarelli”, detti anche “pinnirieji”: erano ottenuti formando sottili cannoli di pasta con le palme delle mani strofinate sulla “spianatora”.
“Sagne”: un taglio speciale di pasta all’uovo, preparato specialmente per le occasioni festive, era “la sagna”, taglio corrispondente, grosso modo, alle nostre lasagne. Per questa preparazione, si tagliava la pasta in strisce piuttosto larghe (2–3 cm.). “Le sagne”, per tradizione, erano preparate alla vigilia dell’Epifania. Il loro consumo era considerato propiziatorio di abbondanza. A questo proposito, si usava dire:
Chi non fa la sagna
tuttu l’annu se lagna.
La medesima formula, in alcune frazioni, era pronunciata il primo dell’anno, quando, per propiziare abbondanza per tutto l’anno, veniva preparata in casa pasta all’uovo per il pranzo di capodanno.
“Strascinati”: «Era il nome vernacolare dato a un piatto di vermicelli (penghi) ottenuti con farina, acqua e sale, saltati in padella con guanciale, salsicce fresche, uova e cacio pecorino (secondo Ansano Fabbi, che attinge a un’antica cronaca, la ricetta fu inventata nel 1494 dalle donne di Monteleone per sfamare i capitani delle truppe che avevano invaso il castello)». (Chávez 2012: 152-154).
La cucina rurale della Valnerina, poco o nulla differisce da quella del contado di Leonessa. I suddetti modi umbri di tagliare la pasta fatta in casa vanno integrati con quelli usati a Leonessa. Qui i “tajulini” erano preparati arrotolando la pasta sul matterello fino ad avvolgerlo del tutto. Una volta avvolto, si tagliava per lungo la sfoglia e, srotolandola, si otteneva una striscia larga circa quattro o cinque centimetri. Tagliandola nel senso della larghezza, si ottenevano striscioline lunghe quanto la larghezza della sfoglia, larghe circa mezzo centimetro. Le “fettuccine”, invece, erano ottenute ripiegando varie volte su se stessa tutta la sfoglia e quindi tagliandola in striscioline larghe circa un centimetro. Ottenuti dei cannoli a sezione rotonda, con un diametro da tre e cinque mm. circa, li si tagliava, o spezzava a mano, ottenendo segmenti di una decina di centimetri di lunghezza. Anche in Umbria, come a Leonessa, i maltagliati erano chiamati “fregnacce”.
Salse per condire la pasta: “lu sugu”.
Le varietà di salse nella cucina leonessana non erano molte. Per la loro preparazione, quando si usava la carne, s’impiegava carne di porco o di pecora. Vi è da dire che, nella cucina rurale, l’uso della pastasciutta soddisfaceva le esigenze di un’economia strettamente autarchica dal momento che sfruttava essenzialmente risorse alimentari prodotte dal nucleo famigliare: la farina di grano, le uova, la carne. Per quanto riguarda il pomodoro, il suo uso entrò abbastanza tardi nella cucina rurale sotto forma di concentrato di pomodoro (“la conserva”). Dato il clima, gli orti famigliari di Leonessa non producevano pomodoro, o almeno non pomodori da sugo. Il concentrato di pomodoro ottenuto in casa era sconosciuto alle massaie leonessane, come pure a quelle umbre delle zone montane, le quali compravano allo spaccio alimentare “la conserva” in quantità sufficienti alla preparazione della salsa. Il concentrato di pomodoro veniva venduto sfuso calcolando la quantità con la cucchiaia di legno e depositando il contenuto su carta oleata. In alcune zone, come in certi paesi della Valnerina, si barattavano uova in cambio di concentrato: “du’ ova de conserva” equivalevano al contenuto di una cucchiaia di legno (circa 50 gr.) barattata in cambio di un paio di uova. Disciolta la conserva in acqua, la si versava sopra il battuto di lardo e cipolla, oppure si preparava la salsa con pezzetti di carne, o salsicce e concentrato di pomodoro. L’uso del sedano e della carota fu adottato in tempi relativamente recenti.
La preparazione della salsa domenicale iniziava al mattino presto e, se la salsa non era pronta prima dell’ora della messa, la sua cura era affidata alle donne che restavano in casa. Si narra di una massaia facente parte del coro parrocchiale la quale, impegnata in chiesa nell’esecuzione dell’Ave Maria di Schubert, vide passare la figlia cui aveva affidato la cottura della salsa e che credeva fosse in casa intenta alla consegna. Il cuore della brava donna ebbe un sussulto e, senza smettere di modulare la dolce melodia, v’inserì la variante “lu suguuu?...” continuando poi a cantare come se niente fosse.
Salsa per gli gnocchi.
La salsa tipica usata per condire gli gnocchi di patate impiegava carne di pecora, specie di castrato, e conserva di pomodoro.
Salsa in bianco per la pasta.
Consisteva in un battuto di guanciale, o lardo, versato bollente sulla pasta, condendo con cacio di pecora stagionato. Una variante della ricetta usava versare sulla pasta bollente, assiema al guanciale o lardo, uova battute.
Salsa di magro per la vigilia di Natale.
Per preparare gli spaghetti di magro per la cena di Natale, si usava comprare la pasta dal rivenditore assieme alla conserva di pomodoro e alle alici salate. Chi poteva, invece delle più economiche alici comprava il tonno, che era venduto sfuso. Come si vede, tutti gli ingredienti per la preparazione degli spaghetti di magro erano acquistati, non prodotti dal contado. Questo fatto testimonia come l’uso di questa ricetta natalizia fosse adottato piuttosto tardi dal contado (forse fra gli anni Trenta e Quaranta del Novecento) essendo importato dalle città. Per la cena di Natale, infatti, si usavano un tempo zuppe di legumi, specie di fagioli, senza aggiunte di grassi animali. Ancor oggi, in Valnerina, gli anziani più osservanti delle tradizioni avite, pur consumando gli spaghetti di magro, esigono un poco di zuppa di fagioli.
Utensili per preparare la pasta:
la tavola usata come piano di lavoro; il matterello; il coltello. Per alcuni tagli di pasta si usavano speciali ferri a sezione quadrata.
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