Mestoli, cucchiai di legno, colini, scolapasta
Mestoli (sgommarèlli).
I mestoli più antichi erano di rame stagnato con manico in ferro. Più tardi vennero sostituiti da mestoli di ferro smaltato, in seguito di alluminio.
Nella foto: Mestolo in rame. Diam. alla bocca cm. 10,5 diam. alla base cm. 7,2 l. cm. 33,2. Ocre S. Pietro. Collezione privata
Cucchiaie di legno (cucchiarélle; cucchiare; cucchiarò’).
Di varie forme e dimensioni, ricavate soprattutto dal legno del faggio, un tempo erano autocostruite
Colini (schiumarole).
I colini più antichi erano in rame. Più tardi vennero sostituiti da colini in ferro smaltato, poi di alluminio. Appartengono alla categoria dei colini anche le “schiumarole”, grossi colini muniti di manico in ferro usati per estrarre dalla cagliata la ricotta, e le scolapaste usate per scolare la pasta ma anche il siero di latte.
Antica schiumarola di rame stagnata all’interno; manico di ferro. Diam. cm.22,2 l. cm. 44. Ocre S. Pietro. Collezione privata
Antico colino in rame stagnato all’interno. Diam. all’orlo cm. 22,1 h. cm. 4,5. Ocre S. Pietro.
Collezione privata
Colapasta in rame. I fori sono disposti a formare un motivo floreale a sei petali, come le caratteristiche decorazioni delle arche abruzzesi. Diam. all’orlo cm. 31,2 diam. alla base cm. 25 h. cm. 6,4
Imbuti (‘mmuttaturu).
Gli imbuti più antichi erano in rame.
Forchette, coltelli, trinciante e tagliere
Forchette da scalco (forchettoni).
Le lunghe forchette da scalco, bidenti, usate per togliere la carne dal fuoco o prelevare il bollito dalla pentola, erano in ferro con l’estremità superiore ripiegata per permettere di appendere la forchetta.
Forchetta da scalco – forchettò(ne) (n. i. 96)
provenienza: Ocre (Leonessa)
materiale: ferro
descrizione: forchetta a due rebbi
misure: h. cm. 46; diam. corpo mm. 8; lg. rebbi cm. 11; distanza tra i rebbi cm. 4,2
stato di conservazione: ottimo
acquisizione: dono di Augusto Ciaglia
anno: 2007
Coltello da cucina – cortéllu (n. i. 265)
provenienza: Leonessa
materiale: ferro, legno
descrizione: coltello da carne, tracce di percussione sul dorso; marchio sulla lama: MFE TORINO
misure: l. tot. cm 40,8; l. lama cm. 27,4; lg. lama alla base cm. 6,4
stato di conservazione: ottimo
acquisizione: dono
anno: 2014
Coltelli.
Coltelli di varie fogge, quasi sempre di fabbricazione industriale, erano usati per le diverse operazioni culinarie, oltre che per la lavorazione delle carni, in specie la carne di maiale.
Coltelli da cucina.
Oltre che per tagliare la carne, il coltello grosso con la lama dal profilo curvilineo era usato per tagliare la sfoglia della pasta fatta in casa. Coordinando i movimenti della mano destra, che alzava e abbassava il coltello poggiato all’asse di lavoro ruotando sull’estremità della lama e della mano sinistra che, poggiata sulla sfoglia arrotolata, la spingeva marcando con le tre dita medie la larghezza del taglio, le massaie esperte ottenevano tagli uniformi con sorprendente velocità.
Coltello da cucina – cortéllu (n. i. 264)
provenienza: Leonessa
materiale: ferro, legno
descrizione: coltello per usi vari
misure: l. tot. cm. 37, 8; l. lama cm. 27,1; lg. lama alla base cm. 4,2
stato di conservazione: ottimo
acquisizione: dono
anno: 2014
Trincianti (mannare).
Il trinciante a un solo taglio (mannarèlla) era usato per separare la carne dall’osso, o per tagliare tranci di carne attaccata all’osso. Di fabbricazione locale, o più spesso industriale, munito di manico di legno formato da guanciole assicurate al codolo mediante rivetti, il trinciante ripeteva le forme degli antichi trincianti romani documentati nell’iconografia. Esistevano anche trincianti di dimensioni minori, ricavati da un solo pezzo di ferro, e trincianti a doppio taglio, costruiti da fabbri locali, come documenta l’esemplare qui riprodotto.
Trinciante. Dalla Frazione di Villa Bigioni: l. cm. 26,3; lg. tagliente cm. 8,7; spess. max. cm. 1. Fabbricazione artigianale. Collezione privata.
Il tagliere (battiluntu / tajere).
Nella cucina rurale il tagliere occupava un posto molto importante: non v’era salsa, specie nei giorni di festa – eccettuando la Quaresima – per la quale non si usasse il battuto di lardo. Il nome del tagliere deriva proprio da questa funzione: battere il lardo e, in genere, i tessuti adiposi del porco (l’untu). Il tagliere era ricavato da una spessa tavola di faggio, o di quercia. Nei giorni di festa, fin dal mattino presto, nei vicoli dei borghi si udiva il battere fitto della mannaia sul tagliere e quello del coltello pesante col quale la massaia tagliava la sfoglia della pasta appena fatta in casa.
Pentole e tegami di coccio
Pentole e tegami di coccio.
Questi economici recipienti erano di gran lunga i più diffusi. Non essendovi a Leonessa artigiani figulini, erano acquistati nelle fiere stagionali, o nelle locali botteghe.
Pentolini.
Pentolini di coccio di varie dimensioni erano usati specialmente per preparare il “caffè”. Abbiamo scritto tra virgolette per chiarire il fatto che il caffè (Coffea arabica) nel ceto rurale era usato solo in occasioni speciali. Nel quotidiano, prendevano il nome di “caffè” surrogati del medesimo ottenuti tostando l’orzo e perfino certe qualità di ghiande.
Pentolino in terracotta – piluccia (n. i. 211)
provenienza: San Vito (Leonessa)
materiale: terracotta
descrizione: corpo di profilo cilindrico rastremato verso l’alto e munito di due piccole anse a nastro contrapposte diametralmente; base piana; labbro assente; bocca circondata da una scanalatura; una seconda scanalatura a circa un terzo dall’altezza. Interno invetriato. La donatrice ricorda che il recipiente era usato per preparare il caffè
misure: diam. max. cm. 10,7; diam. della bocca (esterno) cm. 9,1 e cm. 9,1 (interno); h. cm. 8,1
acquisizione: dono di Maria Adelaide Di Persio
stato di conservazione: ottimo
anno: 2014
Mastelli.
I mastelli più antichi, di forma tronco-conica, erano realizzati con doghe di legno tenute ferme da cerchi di ferro o da fasce di legno (in genere di ornello, o nocciolo). A Leonessa vi erano artigiani, detti “cerchiari”, specializzati nella realizzazione di queste fasce lignee che permettevano una tenuta ottimale.
Secchi (sicchi).
I secchi più antichi, al pari dei mastelli, erano realizzati anch’essi con doghe di legno. Più tardi vennero introdotti nell’uso quotidiano i secchi di ferro zincati.
Cuccume o “caffettiere”
Cuccume / “caffettiere” (cùccume).
Cuccume di rame, munite di manico e becco, erano usate per preparare l’orzo, o surrogati del caffè, meno frequentemente il caffé.
Nella foto accanto: Cuccuma di rame con manico in ottone. In corrispondenza al beccuccio, sul corpo, serie di fori a servire da filtro. Diam. alla bocca cm. 10,4 diam alla base cm. 13,4 h. cm. 15,2 (senza coperchio). Ocre S. Pietro.
Collezione privata
Cuccuma con manico in ottone. Fori dietro il beccuccio a servire da filtro. Diam. alla bocca cm. 9,8 diam. alla base cm. 11,9 h. cm. 15,2. Ocre S. Pietro. Collezione privata
Cuccuma di rame. Serie di fori, dietro il beccuccio, a servire da filtro. Diam. alla bocca cm. 8,5 diam. alla base cm. 11,8 h. cm. 16,3. Ocre S. Pietro. Collezione privata
Pentole e tegami di rame
Pentole e tegami di rame.
Dovuto al maggior costo, le pentole di rame erano, in genere, appannaggio delle famiglie abbienti, o poco più abbienti della media. Chi non poteva permettersi questo “lusso”, usava pignatte di coccio di varie forme e dimensioni.
Pentola di rame – pila (n. i. 246)
provenienza: Leonessa
materiale: rame, ferro
descrizione: pentola in rame di forma troncoconica con ingrossamento nella parte inferiore, munita di due manici di ferro fissati ciascuno da tre ribattini, uno in basso, due in alto. L’orlo superiore è cerchiato da un’esigua fascia di rame
misure: h. cm. 26,5; diam. alla bocca cm 23; diam. max. cm. 27,5
acquisizione: dono
stato di conservazione: ottimo
anno: 2015
Tegame di rame non stagnato all’interno. Maniglie d’ottone. Diam. alla bocca cm. 18, h. cm. 10,3. Ocre S. Pietro.
Collezione privata
Pentola in rame con manico di ferro stagnata all’interno. Diam. alla bocca cm. 18,2, h. cm. 18, 4. Ocre S. Pietro.
Collezione privata
Recipienti per l’olio
Recipienti per l’olio.
L’olio compariva assai di rado sulla mensa rurale nelle preparazioni culinarie, veniva usato nella preparazione della salsa di magro con cui veniva condita la tradizionale pasta di Natale, o per condire, nella medesima occasione, le zuppe di legumi usate da tempi immemorabili. A differenza della Valnerina, che presenta fasce climatiche adatte alla coltivazione dell’olivo, l’altopiano leonessano non è adatto a questa preziosa pianta. L’olio lo si comprava a piccole dosi negli spacci alimentari, dove veniva venduto sfuso, oppure direttamente dal venditore d’olio ambulante conosciuto come “l’ojararu”.
Grandi recipienti per l’olio.
Dei grandi recipienti in terracotta destinati a contenere olio, il più notevole ed anche il più antico è quello conservato presso il locale Convento dei Frati Minori. L’orcio risale al 1701.
particolare data: 1701
Nella foto in alto: Interessante notare come il recipiente abbia tre fori, siti a differente altezza, usati per spillare il contenuto. Il foro più alto permetteva di utilizzare l’olio nuovo; il secondo permetteva di prelevare l’olio più maturo; il terzo di prelevare il sedimento (“la morchia”).
Oliera con beccuccio (stagnòla).
In casa, l’olio era conservato in uno speciale recipiente di latta zincata munito di manico e di un lungo beccuccio, conosciuto come “la stagnòla”.
Saliere.
Scomparse, in pratica, dall’uso nel corso degli anni Cinquanta, le saliere tradizionali erano cassettine di legno con coperchio superiore apribile, appese accanto alla cucina, o al focolare. Una saliera era destinata a contenere il sale grosso, l’altra il sale fino.
Mestoli e ramaioli
Ramaiolo per attingere (rammèlla).
Appeso a un manico della conca, o adagiato a galleggiare sull’acqua, vi era il ramaiolo usato sia per bere che per attingere. Di rame, con manico in ferro desinente a forma di gancio, il manière era munito di uno o due beccucci, in quest’ultimo caso, per essere impugnato agevolmente anche dai mancini.
Mestolo da attingere, ramaiolo – rammèlla (n. i. 116)
provenienza: Ocre (Leonessa)
materiale: rame stagnato all’interno, manico in ferro ripiegato all’estremità, spianato a martello e fissato al mestolo con tre rivetti
descrizione: il mestolo è munito di due beccucci in modo da poter essere usato sia con la mano destra che con la sinistra
misure: l. tot. 42, 3; mestolo: diam. 12 (esclusi beccucci) e diam. 9; h. cm. 6,8; manico in ferro: l. cm. 32 (fino all’attacco al mestolo) lg. cm. 2, spess. mm. 4
stato di conservazione: ottimo
acquisizione: dono di Augusto Ciaglia
anno: 2007
Secondo un’antica tradizione, quando, al mattino, il ramaiolo che era stato lasciato poggiato sulla superficie dell’acqua si ritrovava affondato nella conca, si interpretava il fatto come un avvertimento da parte delle anime dei defunti bisognosi di suffragio. Il tema mitico della sete dei morti è presente già dall’antichità nella cultura greca e romana.
Ramaiolo. Dalla frazione di Ocre: l. cm. 42,3; diam. cm. 14 e cm. 11,3. Collezione privata
Raschiamadia
Raschiamadia.
Per ripulire dai residui di farina e pasta il piano di lavoro interno alla madia, si usava una sorta di raschietto di ferro (rasóra) formato da una lamina piegata a gomito munita di un manico, in genere lavorato a tortiglione, desinente in un gancio per appendere l’attrezzo.
Oltre a questo uso, il raschiamadia era anche usato per tracciare sul pane appena preparato il segno della croce a fini apotropaici nei confronti dell’invidia e del “malocchio”.
Nella foto raschiamadia da Ocre S. Pietro: h. cm. 15,2 lg. max. cm. 9.
Collezione privata
Mobili della cucina
I mobili della cucina.
La cucina della casa rurale era dotata di pochi mobili, tutti funzionali alle attività riguardanti la custodia, la preparazione, la cottura e il consumo dei cibi. Nell’architettura rurale era molto diffuso l’uso di adibire a credenza delle nicchie aperte nella parete, fornite di mensole e, magari, chiuse da una tenda.
L’arca da grano (arcone).
La provvista di grano ad uso famigliare era custodita in uno speciale mobile, detto “arcone”, formato da una serie di tavole sovrapposte a incastro infilate in quattro montanti quadrangolari scanalati sui due lati interni. Le tavole erano fissate ai montanti mediante cavicchie di legno (zéppe). Fuoriuscendo in basso dal corpo del mobile, i montanti formavano i piedi alti circa 40 cm. Nella parte superiore, l’arcone era munito di un coperchio centrale sollevabile fornito di chiusura frontale a cerniera e occhiello. In basso, sul davanti, l’arcone era munito di un’apertura (bocchétta) rastremata in basso, chiusa da una tavoletta che scorreva tra due guide convergenti in basso. Sollevando più o meno la tavoletta, si erogava la quantità di grano desiderata. Quasi sempre, all’interno del mobile, vi erano uno o due bastoni in legno, fissati alla parete frontale e a quella posteriore, ai quali venivano appesi formaggi per permettere una stagionatura dolce e per difenderli dai topi. A volte, il formaggio lo si adagiava sul grano. Data la grandezza del mobile – variabile, a seconda della consistenza del nucleo famigliare tra i due e gli oltre tre metri di lunghezza, con un’altezza compresa tra m. 1,30 ca. e m. 2 ca. – il criterio modulare di costruzione permetteva di montarlo in situ senza inconvenienti per il trasporto. Per la costruzione dell’arcone si preferiva il legno di cerro, usato per le tavole, e il faggio per i montanti. In alcuni esemplari, tiranti in ferro assicuravano una migliore tenuta delle fiancate maggiori. L’arcone, a causa dell’ingombro, non sempre era situato nella cucina ma poteva essere alloggiato nella dispensa.
La forma più antica di arcone era ricavata da un grosso tronco d’albero scavato all’interno, disposto verticalmente e munito nella parte superiore di un coperchio in legno. Questa era certamente la forma originaria di questo deposito per grani la quale rinvia a tempi lontanissimi, quando anche per le sepolture si scavavano tronchi d’albero perché servirssero da bara (esemplari notevoli sono conservati nel Museo Archeologico di Terni). Gli arconi monoxili sono del tutto scomparsi dal nostro territorio. Si ha notizia di un ultimo esemplare superstite conservato nella frazione di Terzone.
Arca per grano – arcone (n. i. 56)
provenienza: Ocre (Leonessa)
materiale: legno di faggio (montanti); cerro (doghe); ferro (tiranti)
descrizione: l’arcone è costruito con quattro robusti regoli, posti verticalmente ai quattro angoli, a servire da supporto alle tavole (6 per ogni lato) che compongono le fiancate. Le tavole scorrono in due alloggiamenti praticati verticalmente in ognuno dei regoli, disposti a formare un angolo di 90° in modo da alloggiare ciascuno le estremità delle assi che compongono due fiancate contigue. La parte superiore è chiusa da tavole e munita di un coperchio centrale apribile, incernierato sul retro. Nella parte anteriore, il coperchio è munito di un’assicella che, agganciando la fiancata anteriore, permette la tenuta impedendo ai ratti d’introdursi all’interno. Il coperchio è munito di chiusura. In questo esemplare, datato agli anni Trenta del ‘900, la tenuta è assicurata da quattro tiranti metallici muniti di dadi. Sul davanti, al centro della fiancata e in basso, vi è l’apertura (bocchétta) per l’estrazione del grano formata da un’assicella rastremata in basso che scorre tra due guide laterali disposte a V
misure: h. tot. cm. 166; h. senza piedi cm. 140; lg. cm. 164,5; tavole : spess. cm. 2,5; piedritti: cm. 8 x cm. 8; coperchio: cm. 90,5 x cm. 76,7; misure interne (spazio immagazzinabile) cm. 156 x cm. 8 2,5 x cm. 130,5 pari a m³ 1.679
stato di conservazione: ottimo
acquisizione: dono di Modesto Marchetti
anno: 2005
bibliografia: Scheuermeier 1996, I: 144 (“cassone”)
La madia (l’arca).
La madia era usata per preparare il pane, conservarlo e custodirvi il lievito. Il piano da lavoro, all’interno del mobile, era accessibile sollevando il coperchio superiore. La tavoletta frontale ribaltabile agevolava l’operazione d’impasto della massa. Allo stesso scopo serviva l’aggetto frontale del mobile.
La preparazione del pane, componente essenziale dell’alimentazione rurale, era soggetta a una serie di precauzioni rituali: sulla pagnotta, una volta impastata, s’incideva una croce usando il coltello o il raschietto di ferro (la rasóra) al fine di proteggere la massa da possibili influenze nefaste (la ‘mmidia; l’ócchiu) durante la delicata fase della lievitazione. Al medesimo fine, si usava anche invocare s. Martino da Tours “santo dell’abbondanza” e, a volte, una sua immagine era posta all’interno del coperchio. Quando s’incontrava una donna intenta a preparare il pane, era mostra di riguardo salutarla con le parole: “San Martinu te ll’accresca”. L’augurio avrebbe anche preservato la massa dalle perniciose conseguenze del malocchio come, ad esempio, una mancata o insufficiente lievitazione.
Per la preparazione del lievito-madre, si preferiva attendere la fase crescente della luna il cui rinnovato potere avrebbe agito incrementando l’energia fermentante del lievito.
La madia era usata anche per la cura dei neonati “allupiti”, o “allupati”: figli di una donna che, quand’era incinta, s’era cibata di carni di animali uccisi dal lupo. Il bimbo “allupitu” era colto da accessi furiosi, si graffiava, gridava, mordeva i capezzoli della madre, non riusciva a prender sonno. Per curarlo, lo si adagiava sul piano della madia insieme al pane appena sfornato la cui fragranza avrebbe distrutto il “veleno” inoculato dal lupo. Allo stesso scopo si usava anche esporre il bimbo alla bocca del forno mentre il pane cuoceva. Il rito terapeutico si fondava sulla sacralità del pane, cui fu conferita la dignità di sostituto del corpo di Cristo, e anche sulla sua valenza simbolica di conquista eccellente del lavoro agricolo e della civiltà sedentaria, opposta all’attività predatrice del lupo e al suo habitat selvaggio. L’invenzione dell’agricoltura, infatti, permise all’uomo di abbandonare il nomadismo legato all’attività di caccia e raccolta.
Madia – arca (n. i. 260)
provenienza: Trognano (Cascia)
materiale: legno
descrizione: madia da pane costruita a Leonessa agli inizi degli anni ’40 da Domenico Falconi; trasferita a Trognano e usata da Alda Di Carlo, madre del donatore. La madia si compone di un corpo inferiore munito di due sportelli apribili entrambi verso l’esterno e di un corpo superiore, al cui interno s’impastava la massa per il pane. Il corpo superiore, in alto, aggetta verso l’esterno ed è chiuso da un coperchio superiore, munito di due cerniere, che si apre verso l’alto.
misure: l. cm. 114; lg. cm. 59; lg. alla base del corpo superiore cm. 53; h. cm. 92,5
acquisizione: dono della famiglia Di Carlo
stato di conservazione: ottimo
anno: 2016
Tra le madie più antiche e celebri di Leonessa vi è quella usata dalle monache dell’ex-Convento delle Clarisse, oggi custodita nel Convento dei Frati Minori. A questo mobile, risalente al XVIII sec., la fede popolare attribuisce un miracolo: in un’epoca di assoluta povertà, un filone di pane conservato nella madia, una volta tagliato, sarebbe tornato intatto. Questo tipo di madia non era usato per preparare il pane ma solo per custodirlo una volta cotto.
Antica madia dal Convento delle Monache Clarisse di Leonessa
(oggi nel Convento dei PP. Cappuccini di Leonessa)
Fornelli, Ventole e Stufe
Fornelli a carbone.
Il modo tradizionale di cucinare, e il più antico, usava il fuoco del focolare domestico. Più tardi, verso gli inizi del Novecento, si iniziarono a usare cucine fisse alimentate a carbonella. Questo modo di cucinare contravveniva alle rigide norme dell’autarchia: la carbonella, infatti, bisognava comprarla. Carbonaie erano attive sull’altopiano leonessano ma il loro prodotto alimentava soprattutto il circuito commerciale diretto verso le città. La cucina con fornelli a carbone era realizzata in muratura: dotata di alcuni fornelli nella parte superiore, nella parte inferiore presentava l’alloggiamento destinato al combustibile. I fornelli, alloggiati in aperture quadrate, erano di ghisa, avevano forma tronco-piramidale rovesciata e contenevano la carbonella accesa.
Ventole per fornelli a carbone.
La tipica ventola per fornello a carbone consisteva in un ventaglio di penne di tacchino ed era munita di manico in legno.
Stufa economica.
La stufa economica, sistemata nella cucina, serviva come fonte di calore e, allo stesso tempo, permetteva di cucinare sulle piastre di ghisa di cui era fornita sfruttando il calore prodotto dalla camera di combustione. Questo tipo di stufa, assai diffuso, rispetto al focolare, offriva il vantaggio del minor consumo di legna sia per il riscaldamento che per la cottura dei cibi. Sulla piastra superiore si aprivano aperture circolari di vario diametro da usare come fornelli. Ogni apertura era chiusa da una serie di anelli concentrici asportabili in modo da consentire una minore o maggiore esposizione al fuoco dei recipienti. In un’apposito alloggiamento situato a sinistra della camera di combustione, inoltre, la stufa economica era dotata di una caldaia che manteneva sempre calda l’acqua da usare in cucina. A destra della camera di combustione era allogiato il vano che serviva da forno. In alcune case le stufe economiche sono ancora in uso.
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