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Wednesday, 26 July 2017 20:21

Panche da focolare

Panche da focolare.

La panca da focolare, in legno, aveva forma leggermente curva per permettere agli occupanti di rimanere a una distanza pressoché equidistante dal fuoco. Ai due estremi, la panca da fuoco era munita di braccioli. Caratteristica di questo mobile era la spalliera molto alta la quale, continuando in basso sotto il sedile fino a toccare il pavimento, permetteva di isolare coloro che vi si sedevano dalla corrente fredda richiamata dal flusso ascensionale dell’aria calda nella cappa. Un vecchio proverbio recitava in proposito: «Lu caminu, denanzi te scalla, deretru te gela». La panca da focolare ovviava il meglio possibile a questo inconveniente, tipico dei camini sprovvisti di retroalimentazione.

 

 

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Wednesday, 26 July 2017 20:16

Recipienti per cucinare

Pentola per la cottura dei legumi (pigna).

Per cuocere i legumi – fave secche, fagioli, ceci, cicerchia – si usava un apposito recipiente panciuto, rastremato in basso, munito di manico fissato alla bocca e alla spalla della pigna. La sera prima di andare a dormire, s’immergeva la parte inferiore della pigna contenete i legumi in ammollo nella cenere sotto la quale covava la brace. Il calore continuo, durante la notte, in recipiente coperto permetteva un’efficace precottura dei legumi. La pigna era, in genere, invetriata all’interno e all’esterno fino alla metà circa del recipiente. 

 

Recipiente per la cottura di cereali e legumipigna (n. i. 210)

provenienza: San Vito (Leonessa)
materiale: terracotta
descrizione: recipiente a forma di  brocca con unica  ansa a  nastro;  profilo rastremato  verso il basso con piede anulare; bordo rilevato contornato, al centro, da una scanalatura.
Invetriatura interna di colore giallastro estesa al bordo con sbavatura all’esterno sulla spalla del recipiente.
misure: h. cm. 16; diam. cm. 20,6; bocca (leggermente ellittica): diam. interno cm. 15,2 e cm. 13,2; ansa: lg. cm. 3 spess. max. mm. 12
acquisizione: dono di Maria Adelaide Di Persio
stato di conservazione: ottimo

anno: 2014
bibliografia: Scheuermeier 1996, II: 18-19, fig. 15

 

Recipiente per la cottura dei cerealipigna (n. i. 257)

provenienza: Campagna Romana
materiale: terracotta
descrizione: corpo globulare rastremato in basso; piede anulare; unica ansa a nastro. Invetriatura nera interna ed esterna fin quasi al piede
misure: diam. max. cm. 18,3; bocca: diam. est. cm. 12,7; piede: diam. cm. 8,8; h. cm. 20,9
acquisizione: dono del Museo di Poggio Mirteto
stato di conservazione: ottimo

anno: 2016

 

Recipiente per la cottura dei cerealipigna (n. i. 258)

provenienza: Monterotondo
materiale: terracotta
descrizione: corpo globulare rastremato in basso; piede anulare; unica ansa a nastro. Invetriatura interna ed esterna; decoraz. dipinta
misure: diam. max. cm. 19,5; bocca: diam. est. cm. 14,7; piede: diam. cm. 10,4; h. cm. 21,7
acquisizione: dono del Museo di Poggio Mirteto
stato di conservazione: ottimo

anno: 2016

 

Pigna.  Dalla Frazione di Villa Bigioni: diam. max. cm 17,6; diam. alla bocca cm. 13,5; h. cm. 17,7. Collezione privata.

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Saturday, 22 March 2014 00:00

Il pane

La produzione del pane.
La panificazione era una delle attività più importanti della massaia tradizionale, attività non esente da una profonda connotazione sacrale. Il pane destinato all’alimentazione della famiglia veniva preparato ogni quindici giorni circa e richiedeva il lavoro comunitario delle donne di casa. Avvolti in panni o canovacci e custoditi nella parte inferiore della madia o nella credenza, fino a un paio di settimane dalla cottura i filoni di pane non diventavano eccessivamente duri. La forma di pane più in uso a Leonessa era ed è il “filone” del peso di circa due chili, rigorosamente sciapo, come si usa anche nel Reatino.

Il lievito.
«Per approntare il lievito da pane (lèvitu), si separava una porzione della massa già preparata e la si lasciava riposare per diversi giorni in una scodella, chiusa dentro la madia. Al momento di usarlo, si stemperava il lievito con un poco di acqua tiepida. Un tempo, quando non se ne aveva in casa, si usava chiedere in prestito il lievito ai vicini i quali lo fornivano volentieri, così come al mattino fornivano la brace per attizzare il fuoco, giacché il pane e il fuoco, per l’intensa sacralità di cui partecipano, costituiscono simboli pregnanti del vivere consociato, ossia del modello di vita considerato pienamente “umano”. Prima di riporre la massa destinata a produrre il lievito, si usava tracciarvi sopra il segno della croce con la mano, o col raschiamadia di ferro. Si credeva che, senza questa precauzione, il potere della fascinazione – l’invidia e il malocchio – avrebbero potuto impedire la formazione del lievito. Col passare degli anni, le massaie iniziarono a comprare dal droghiere lievito per dolci di preparazione industriale (le cartine), mentre per fare il pane continuarono ancora per lungo tempo a prepararlo in casa». (Chávez 2012: 141-142).

Preparazione della massa.
Per preparare l’impasto si usava il piano d’appoggio che formava il fondo della parte superiore della madia, o arca. Per lavorare con maggior comodità, si ribaltava la tavoletta frontale della madia.

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Saturday, 22 March 2014 00:00

Il Forno

Il forno. Nei “casali”, il forno è separato dalla casa, posto nelle adiacenze della cucina. Nelle frazioni, invece, il forno comunitario, alloggiato in una costruzione in muratura, è posto ai margini della piazza. Se la frazione è divisa in due o tre nuclei di case – v. p. es. “Ocre S. Pietro” e “Ocre S. Paolo” separate da un terzo gruppo di case detto “Casale Bolletta”, esistono tre forni comunitari, ognuno fruibile dagli abitanti di un nucleo. Nei moduli abitativi che posseggono il proprio forno famigliare, questo è addossato alla residenza (spesso con la bocca che s’apre sul vano della cucina).

Published in La casa rurale
Saturday, 22 February 2014 00:00

La cucina

La cucina

Nella casa rurale tradizionale, la cucina non era solo la stanza dedicata alla preparazione dei cibi, era anche il principale luogo di ritrovo per i membri del nucleo famigliare e il luogo in cui veniva accolto chi giungeva in visita. La cucina era il solo ambiente sempre riscaldato della casa rurale. In cucina, inoltre, specie nella stagione fredda, si svolgevano lavori domestici come, ad esempio, il filato e il cucito. L’accesso alla dimora rustica avveniva attraverso la cucina sulla quale si apriva la porta del corridoio che portava alle stanze, oppure la porta dell’unica stanza da letto, o delle stanze da letto. Lo spazio occupato dalla cucina era piuttosto ampio, comunque, più ampio di quello dedicato alle altre stanze. Al centro della cucina, il tavolo attorno al quale si riuniva la famiglia per prendere i pasti. Oltre al tavolo, pochi mobili: una piattaia; un asse di legno munito di ganci – detto “‘ppiccarame” – cui venivano appesi pentole e tegami di rame; una credenza (spesso sostituita da una nicchia o un vano nella parete fornito di tavole); la madia (arca) usata per la preparazione del pane e per riporvelo; sedie e panche. L’acquaio tradizionale era ricavato da un blocco di pietra scavato a scalpello poggiato su due supporti in muratura. Prima dell’introduzione della rete idrica, accanto all’acquaio vi era il deposito d’acqua: la botticella di legno (cupélla) o il tino costruito con doghe (lu bigunciu). L’acqua da bere era contenuta nella “conca” di rame. Dal tetto della cucina pendevano “le stangarèlle”: lunghi bastoni appesi al soffitto mediante anelli di ferro, ai quali si appendevano pannocchie di granturco, serti di aglio e cipolle, derrate alimentari (ad esempio il lardo da usare in cucina, o il pesce affumicato). Alle pareti erano appesi i vari setacci da usare per la preparazione del pane e della pasta.

Il focolare. Il cuore della cucina rurale e dell’intera dimora era il focolare. Prima dell’introduzione delle cucine a carbonella, i cibi venivano cotti sul fuoco del focolare. Il focolare, inoltre, fungeva da naturale centro d’aggregazione per i componenti della famiglia e anche per i vicini che, alla sera, solevano andare in visita e sostare attorno al fuoco. Per quanto riguarda la posizione, il focolare leonessano non è mai posto al centro della stanza, ma addossato a una parete della cucina. Il piano del focolare (aròla, dal lat. areola) si alza sul pavimento per circa 20 o 30 cm.. I focolari più antichi erano più grandi e profondi dei più recenti che, più che per cucinare, servono per riscaldare. La cappa, in muratura, era munita sul davanti di una mensola di legno poggiata sul trave frontale del focolare sulla quale veniva posta la lampada e altri oggetti.

Il focolare come centro d’aggregazione. «Il focolare domestico era tenuto sempre acceso durante il giorno a iniziare dalle primissime ore del mattino poiché le donne usavano cucinare sulla fiamma del camino dove, appeso alla catena, vi era sempre “lu callaru” di rame stagnato: il capiente caldaio rifornito continuamente d’acqua, mentre sui tripodi di ferro si poggiavano i tegami per cucinare. Di notte le braci venivano ammucchiate con la paletta di ferro e ricoperte d’una coltre di cenere, azione fatta oggetto di speciali precauzioni rituali. Semisepolta nella cenere veniva lasciata, durante la notte, la pignatta di terracotta fornita di manico (la pigna) in cui si facevano ammollare ceci, o fagioli secchi per la minestra del giorno seguente: Accanto al fuoco, di giorno, sostavano i più vecchi della famiglia occupati in piccole faccende e lavori minuti, oppure le donne addette alla filatura della lana, o impegnate a collaborare nella preparazione dei pasti.

Mentre nello spazio comune del vissuto quotidiano vi erano spazi riservati agli uomini e altri alle donne, il focolare per sua natura favoriva la socializzazione indipendentemente dal sesso e dall’età: questa, dal punto di vista culturale, era la sua più importante funzione. Dopo cena, infatti, il camino acquisiva una diversa dignità: diventava il centro attorno al quale si svolgeva la vita famigliare ed avveniva, in modo speciale, la trasmissione della cultura tradizionale. Attorno al fuoco si recitava il rosario serale assieme alle preghiere corrispondenti alle feste più sentite e importanti del calendario liturgico e della devozione famigliare.

Attorno al fuoco si discutevano questioni di famiglia, problemi riguardanti il lavoro, si prendevano assieme le decisioni più importanti. Attorno al fuoco gli anziani entravano in contatto coi giovani, un contatto assai più diretto di quello quotidiano che avveniva sul lavoro, o nei brevi momenti dei frugali pasti comunitari. Attraverso la parola degli anziani, il patrimonio tradizionale della cultura rurale veniva riproposto, riaffermato, veicolato ai giovani. In una parola, avveniva quel necessario processo di “tramandamento” che è proprio della tradizione quand’essa è ancora viva e operante. E la tradizione forgiava nei giovani la coscienza dell’identità culturale assicurando alla comunità rurale la persistenza nel tempo di tale identità. Un’identità profondamente religiosa i cui punti ideali di riferimento erano Cristo, la Vergine, i santi, gli eroi della storia patria e quelli delle storie attinte al repertorio della grande poesia di Dante, Ariosto, Tasso che veniva appresa a memoria. Sottratti alle rarefatte regioni della grande creazione poetica e al dominio colto dei letterati, pur non avendo perso nulla della loro nobiltà, gli antichi cavalieri erano divenuti eroi del popolo ed erano da questo amati, sognati, additati ad esempi di vita. Assieme ad essi erano entrati a far parte della tradizione popolare anche i grandi eroi della storia più antica assieme a personaggi d’una storia molto più recenti: i briganti. Le narrazioni iniziavano dopo la recita del rosario, mentre la cucina era immersa nella penombra rischiarata dai bagliori del fuoco.

Dopo cena ogni lume era spento per ridurre il consumo d’olio o di sego. Spesso si risparmiava anche la legna perché due o più famiglie si riunivano a turno presso uno stesso focolare. Quando ci si recava in casa d’altri per passare la serata accanto al fuoco si usava una parafrasi: “ce jimu a ssede’: ci andiamo a sedere” e l’incontro si chiamava “la seduta”. Ai convenuti si usava offrire piccole pere selvatiche (pera pazze) conservate in un tino con acqua che, col tempo, diventava acidula. Oppure si offrivano loro mele selvatiche (schianchi) lasciate maturare a lungo sotto la paglia. Ma soprattutto si metteva in comune il dono sacro del fuoco, simbolo d’ospitalità, solidarietà e della famiglia». (Polia-Chávez 2002: 35-37).

In omaggio al valore sacrale della fiamma del focolare domestico, si evitava di sputare nel fuoco o di gettarvi immondizie o lordure. Si gettava, invece, nel fuoco l’acqua usata nei riti di lecanomanzia effettuati per diagnosticare la presenza dell’invidia e del malocchio e neutralizzarne gli effetti perniciosi. In questo caso, il potere purificatore del fuoco avrebbe svolto una funzione benefica.

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