La pala
La pala da forno.
Per infornare il pane si usava un’apposita pala monoxila ricavata, in genere, da un unico pezzo di faggio. Sulla parte piana della pala, priva di angoli vivi, si appoggiava la pagnotta da deporre sul fondo riscaldato del camino.
Pala da forno – pala pe’ ‘nfornà (n. i. 61)
provenienza: Leonessa
materiale: legno di faggio
descrizione: pala monoxila
misure: l. cm. 184,5; manico a sezione arrotondata ovaloide: diam. cm. 5 e cm. 4
stato di conservazione: buono (mancante dell’estremità del manico)
acquisizione: dono di Tonino Zelli
anno: 2012
bibliografia: Scheuermeier 1996, I: 203
Il mondatoio (lu rimónniru).
Per pulire il piano del forno prima della cottura del pane, si adoperava un bastone lungo un paio di metri all’estremità del quale, mediante del filo di ferro, erano legati degli stracci. Lu rimónniru era usato anche per allontanare dal piano di cottura i restanti residui di brace dopo aver liberato il piano di cottura mediante una pala.
Forno e cottura
Cottura: la gestione comunitaria del forno da pane.
Per quanto riguarda il forno da pane, vi è da distinguere tra forni privati, gestiti da una sola famiglia o da un gruppo di famiglie congiunte da vincoli di parentela, e forni pubblici costruiti dal Comune e gestiti dalle famiglie residenti in un borgo, o nelle frazioni dei paesi. Nel primo caso, quando si trattava di moduli abitativi rurali isolati nei campi (casali) il forno era separato dal fabbricato della casa, formava un corpo a sé ed era ubicato nelle adiacenze della cucina. Nelle case rurali aggruppate nei borghi, il forno a gestione famigliare era alloggiato in un piccolo corpo in muratura addossato al corpo della casa. In alcuni casi, nei moduli abitativi muniti di accesso esterno mediante scala addossata al fabbricato, il forno poteva essere ubicato nella loggetta coperta sita all’estremità superiore della scala d’accesso, di rimpetto alla porta della cucina, la quale nelle case rurali costituiva la porta d’entrata alla casa.
I forni gestiti comunitariamente dagli abitanti di un borgo, o d’una frazione, posti in genere al margine d’una piazzetta, costituiscono un modulo architettonico a sé stante coperto da tetto a doppio spiovente sul quale s’innalza il comignolo. Il forno in cui avviene la cottura del pane, costruito in muratura con pianta circolare e coperto a volta, con piano in mattoni – chiuso da sportello asportabile in ferro – è preceduto da un vano coperto il quale reca sul lato destro e sul sinistro una serie di tavole poggiate su sostegni di legno murati alla parete e destinata ad appoggiarvi le tavole coi pani prima e dopo la cottura. In alcuni forni, sul retro, si apre una piccola legnaia destinata ad alloggiare le fascine e il legname minuto occorrente alla cottura.
La legna necessaria alla cottura era portata sul posto dalle famiglie che si erano accordate per cuocere il pane in quel giorno. Una volta arse le fascine e scaldato convenientemente il piano di cottura, mediante una pala si provvedeva a sistemare le braci tutt’attorno al perimetro dello stesso e, mediante apposito bastone fornito di stracci, si provvedeva altresì a liberare il piano di cottura da residui di brace o carboni che avrebbero potuto inserirsi nella massa del pane. Chiuso lo sportello di ferro, si attendeva la cottura.
«Verso la fine degli anni Sessanta del secolo scorso, un po’ dovunque, i forni pubblici utilizzati dagli abitanti dei borghi smisero di fumare. Il declino di quest’antichissima, tradizionale incombenza femminile, si deve alla maggior disponibilità di denaro liquido, alla consistenza molto più esigua dei nuclei famigliari e alla più scarsa disponibilità di tempo. A ciò, va aggiunto il consistente spopolamento dei borghi rurali che rendeva difficile svolgere un lavoro comunitario come quello richiesto dalla gestione inter-famigliare del forno pubblico. Occorre, inoltre, tener presente che la panificazione richiede, da parte della massaia, un impegno abbastanza gravoso in termini di ore lavorative. Insomma, il pane bianco acquistato dal fornaio rientra nel numero delle “commodità” cittadine adottate progressivamente dal contado a partire dal dopoguerra». (Chávez 2012: 142).
La cottura del pane, operazione delicata da cui dipendeva il buon esito della panificazione e la provvista bisettimanale del pane quotidiano, era soggetta ad alcune precauzioni rituali di tipo apotropaico volte ad allontanare dal pane in cottura i temuti influssi della fascinazione: il malocchio e l’invidia (l’òcchiu; la ‘mmidia). Prima di disporre il pane sul piano di cottura, rivolte verso le massaie si segnavano e, introducendo il pane, dicevano “Nel nome del Padre”, oppure “Il Signore ti benedica”; una volta chiuso lo sportello del forno, vi tracciavano sopra una croce usando la mano, o la pala da forno, e alcuni erano soliti pronunciare la formula: “San Martino l’accresca”.
Tra gli usi magico-terapeutici del forno da pane vi è da menzionare l’esposizione alla bocca del forno, mentre il pane era in cottura, dei bambini “allupati” / “allupiti”: neonati partoriti da donne che, essendo incinte, s’erano cibate delle carni di animali sgozzati dal lupo. Si credeva che i neonati acquisissero caratteristiche lupine che si manifestavano in una innaturale aggressività e irrequietezza. L’esposizione al calore e al profumo del pane in cottura avrebbero neutralizzato il “veleno” inoculato dal lupo.
Strumenti usati per infornare il pane.
Gli strumenti utilizzati per trasportare il pane fino al forno e per la sua cottura erano: la tavola da trasporto; il cercine per sistemare la tavola sulla testa; il tessuto con cui il pane veniva coperto durante il trasporto al forno e dal forno per preservarlo dalla polvere e, d’estate, dalle mosche; la pala da forno usata per infornare e sfornare; il mondatoio per tener pulito il piano di cottura.
Cottura sotto la brace del focolare.
Alternativa alla periodica cottura del pane nel forno, la cottura di focacce sotto la brace del focolare domestico era usata occasionalmente.
Cottura sotto la teglia.
Specie in occasioni festive, alcuni dolci o focacce erano cotte non nel forno ma sul piano del focolare usando come copertura una teglia. Questo tipo di cottura, non esente da una connotazione sacrale, ripete l’antico metodo usato nella Roma antica per preparare le offerte (liba) destinate agli dèi. Si ricordi, a questo proposito la derivazione dalla parola “teglia” – dial. umbro “tegghia” – dal latino tegula. (A Leonessa “sóru” dal lat. solum).
Cottura sotto la cenere.
Era in genere riservata alle saporite patate prodotte sull’altopiano leonessano. Dopo averle disposte sul piano del focolare, le si ricopriva con brace e uno strato di cenere fino a cottura ultimata.
Uso devozionale del pane.
Per quanto riguarda l’uso del pane in contesti devozionali, ricordiamo i principali:
Il pane dei morti:
nella festa d’Ognissanti venivano preparati da ogni famiglia dei piccoli pani contrassegnati da una croce. Al mattino, i poveri e i bambini si recavano di casa in casa e, in cambio della recitazione di un padrenostro e di un requiem per i defunti della famiglia, ottenevano un “pane de li mórti”. Un tempo, nel Leonessano, si usava preparare per Ognissanti dei dolci speciali detti “le fave de li morti”, sostituto delle zuppe di fave secche distribuite altrove ai poveri nella medesima occasione.
Il pane di S. Nicola:
in alcune frazioni, come ad esempio ad Albaneto e a Vallunga, in occasione della festa di S. Nicola di Mira, poi di Bari, si preparavano le “pagnottèlle de san Nicola”. Per cuocere questi piccoli pani, durante la novena in onore del santo, che iniziava il 26 novembre, si raccoglievano solo cespugli spinosi e rovi, trascinati in fasci fino ai villaggi. Nello stesso periodo si macinava il “fiore” del grano, ossia il grano scelto da utilizzare per la preparazione delle pagnottelle della quale erano incaricate solo ragazze vergini. Le verginélle lavoravano di notte e avevano diritto alla colazione con latte e caffè e biscotti o pane abbrustolito, oltre a ricevere in dono razioni di caldarroste, o biscotti con un goccio di vino. Ogni famiglia sui faceva carico della preparazione di una certa quantità di pani sui quali veniva apposto il segno SN (S. Nicola) sormontato dal profilo d’una mitria vescovile. Nel forno veniva acceso il fuoco di rovi e le vergini che avevano preparato il pane dovevano portarlo al forno sulle apposite tavole poggiate sulla testa ma senza il cercine. Se sullo sportello di ferro del forno, durante la cottura, si formavano goccioline di condensa, il segno era interpretato in senso fausto poiché quelle goccioline erano assimilate alla celebre “manna” che, a Bari, distilla dalle ossa del santo protettore delle vergini povere. Le ceste coi pani venivano portate in chiesa per esservi benedette nel giorno della festa del santo, quindi da ogni famiglia le pagnottelle erano distribuite in dono.
Nella frazione di Vallunga, il 10 settembre, festa di S. Nicola da Tolentino, venivano preparati speciali pani formati ognuno da tre o sei piccole masse congiunte di pasta lievitata. Cotto nel forno, contenuto in cesti di vimini adorni di fiocchi rossi, era benedetto in chiesa e quindi distribuito.
Il pane di S. Antonio abate.
In occasione della festa di S. Antonio abate, cui il popolo aveva attribuito il ruolo di patrono degli animali domestici, si preparavano piccoli pani che, una volta benedetti, venivano somministrati agli animali in caso di malattia.
Per quanto riguarda il generale rispetto nei confronti del pane, ci limitiamo a ricordare alcuni tabù: porzioni di pane, anche piccolissime, molliche, frammenti non potevano essere gettati via. In genere venivano riutilizzati come mangime per gli animali. Si credeva che, dopo la morte, lo spirito di chi avesse gettato via pezzi di pane sarebbe stato costretto a raccoglierli in canestri senza fondo.
Quando si poggiava il pane sulla tavola da pranzo, o nel mobile destinato alla sua custodia, era vietato poggiarlo “all’incontrario”, ossia disponendo verso l’alto la parte che aveva poggiato sul piano di cottura. Infrangere questo tabù era considerato colpa grave foriera di disgrazie.
Quando per caso un pezzo di pane cadeva al suolo, lo si raccoglieva e, prima di riporlo o di usarlo, lo si baciava.
Il Forno
Il forno. Nei “casali”, il forno è separato dalla casa, posto nelle adiacenze della cucina. Nelle frazioni, invece, il forno comunitario, alloggiato in una costruzione in muratura, è posto ai margini della piazza. Se la frazione è divisa in due o tre nuclei di case – v. p. es. “Ocre S. Pietro” e “Ocre S. Paolo” separate da un terzo gruppo di case detto “Casale Bolletta”, esistono tre forni comunitari, ognuno fruibile dagli abitanti di un nucleo. Nei moduli abitativi che posseggono il proprio forno famigliare, questo è addossato alla residenza (spesso con la bocca che s’apre sul vano della cucina).
Moduli abitativi
Moduli abitativi
Per quanto riguarda la tipologia delle case rurali dell’altopiano leonessano, una ricerca esaustiva non è stata ancora compiuta. Per questo motivo, tenendo in conto la sostanziale affinità tra i moduli abitativi del ceto rurale di Leonessa e quelli della confinante Valnerina, abbiamo adottato l’accurata tipologia, risultato delle ricerche di F. Bonasera, H. Desplanques, M. Fondi e A. Poeta, pubblicata nell’opera “La casa rurale nell’Umbria” edita dal Consiglio Nazionale delle Ricerche (Bonasera et al., 1955). Passiamo dunque in rassegna le principali tipologie di dimore rustiche secondo il criterio stabilito dai menzionati studiosi:
“Casa con annessi incorporati”: è composta dalla costruzione adibita a dimora del nucleo famigliare (o delle famiglie) nei cui muri perimetrali sono incorporati i “rustici”, ossia la stalla (o anche l’ovile, il porcile, il pollaio) il magazzino degli attrezzi e il forno. A questa tipologia appartenevano le case più povere e più antiche – quasi ovunque scomparse in Umbria – che Henri Desplanques classifica come “tipo elementare”, consistenti in una costruzione a un solo piano, con una sola stanza che fungeva da cucina e camera da letto e col “rustico” (in genere una piccola stalla) che formava parte integrante della struttura abitativa.
“Casa con annessi addossati”: in questa tipologia di dimora rurale, i “rustici” non sono incorporati nella medesima fabbrica in cui si ubica l’abitazione, ma addossati alle pareti esterne della medesima
“Casa con annessi separati”: la struttura abitativa è separata dagli annessi, o “rustici”. In questa tipologia, i “rustici” non sono né incorporati né addossati ma separati dalla casa e costruiti in prossimità di essa, anche in moduli separati, sfruttando lo spazio disponibile. In molte frazioni di Leonessa, i “rustici” sono separati dall’abitazione e comprendono, in genere, una stalla a piano terra e un fienile (pajaru) al primo piano accessibile mediante scala interna di legno. Il pavimento del fienile è composto da un tavolato poggiato su travi.
“Casa con annessi distanti”: questa tipologia in cui i “rustici” non solo sono separati dall’abitazione ma posti fuori del perimetro del paese, o del borgo, sull’altopiano leonessano è molto rara. Nella cinta muraria dell’antica Leonessa, ad esempio, una via parallela al corso – Via Durante Dorio – è conosciuta localmente come “via de le zeperélle”, ossia via dello sterco di capra, in quanto nelle parti basse delle abitazioni erano alloggiate le stalle.
“Casa di tipo unitario con abitazione sovrapposta al rustico”: è la più frequente a Leonessa e nelle frazioni. In questo modulo costruttivo, in un unico corpo architettonico sono contenuti la dimora sovrapposta al “rustico”, o ai “rustici” (stalla, magazzino, ecc.). La scala d’accesso al piano superiore, in questa tipologia abitativa, è posta all’esterno, meno spesso all’interno della costruzione. La scala esterna permette di risparmiare spazio all’interno del fabbricato e, se coperta, risulta ugualmente comoda anche nella brutta stagione. La casa con abitazione sovrapposta al rustico presenta il vantaggio della necessità di un unico tetto, risparmiando in tal modo sulla parte più costosa della casa, dato che i coppi di copertura dovevano essere acquistati da artigiani specializzati (a Leonessa la fornace per i coppi era sita nella frazione di Volciano). Questa tipologia di modulo abitativo, inoltre, presenta il vantaggio della facile accessibilità ai “rustici” e, in specie, alla stalla. Nelle case più antiche, una botola di legno aperta nel pavimento della stanza da letto, permetteva di scendere direttamente nella stalla mediante una scala di legno. I disagi dal punto di vista igienico risultano più che evidenti, ma gli allevatori di un tempo preferivano tenere continuamente sott’occhio i loro animali ascoltando le loro voci e i rumori: «I “rumori delle bestie” – muggiti o belati; nitriti o ragli; lo scalpitare; il risuonare concitato delle catene alle mangiatoie – avvertono se il bestiame sta bene o male, se è irrequieto o infuriato, o se sta per partorire. E l’allevatore sa interpretare ognuno di questi “rumori”» (Chávez 2012: 57).
Per quanto riguarda la scala esterna, munita o meno di copertura e addossata a una parete della casa, questa permette l’accesso a un pianerottolo (in dialetto “balcone”) che può essere coperto da tetto, dal quale si accede alla cucina. L’ingresso alle stanze avviene passando dalla cucina. La scala esterna, inoltre, offre la comodità del sottoscala nel quale può essere alloggiato il pollaio, oppure la conigliera.
Una tipologia abitativa a parte è costituita dalle “case di pendio”: i fabbricati addossati a una parete naturale. In questa tipologia manca la scala – interna o esterna – e l’ingresso all’abitazione avviene nella parte alta (posteriore) del fabbricato; l’ingresso ai “rustici” è sito invece nella parte bassa, o frontale. Il tetto è a un solo spiovente. Una scala interna, in genere di legno, permette di scendere ai “rustici”. Sovente, accanto all’abitazione del piano superiore è sito il fienile.
Per quanto riguarda le finestre, specie nelle zone a clima freddo, come appunto sull’altopiano leonessano, la loro apertura era in genere molto ridotta onde evitare la dispersione di calore sicché la luce che attraversava la finestra permetteva appena di rischiarare l’ambiente. In alcune antiche dimore rustiche, le stanze più interne erano prive di finestre.
Per quanto concerne l’orientamento, la parte della casa esposta a settentrione, è in genere priva di finestre. All’interno della casa, nella parte settentrionale della stessa, una stanza senza finestre – la “stanza del freddo” – era destinata a dispensa. La facciata della dimora rustica è volta, di preferenza, verso sud o sud-ovest in direzione dell’aia e nella medesima direzione guardano le finestre.
Il “casale”. Le dimore rurali ubicate fuori dalla cinta muraria e fuori dai nuclei abitativi – le frazioni dette in dialetto “case” (ad es. Ca’ Bigioni, Ca’Pucini, ecc.) – sono comprese nella tipologia dei “casali”. In questo tipo di abitazione, il “rustico” non è mai separato dal modulo abitativo essendo incluso nel perimetro della costruzione. Può essere affiancato alla zona residenziale, o sottoposto ad essa, a piano terra. A volte, la cucina (piuttosto spaziosa) è posta a piano terra, accanto alla stalla. Dalla cucina, una scala interna sale al primo piano dove sono ubicate le stanze da letto e il fienile. Quest’ultimo è munito di un “finestrone”, aperto giusto sopra la porta della stalla, dal quale il fieno – compresso nelle “balle” rettangolari, o raccolto in un ampio telo prima dell’uso del trattore, era fatto scendere mediante carrucola.
La stalla dei bovini: un tempo, era piuttosto piccola poiché la famiglia rurale possedeva, in genere, una vacca e un toro, o due vacche da usare nell’aratura e nei trasporti pesanti come animali da tiro. Il latte vaccino serviva a preparare il formaggio per il consumo domestico. Solo dopo la metà degli anni Cinquanta, quando si iniziò a praticare l’allevamento dei bovini da latte o da carne a scopo commerciale, la stalla assunse dimensioni molto maggiori. Nella stalla tradizionale, la mangiatoia era in muratura; il bordo esterno della stessa era formato da un trave munito di fori attraverso i quali passavano le catene legate al collo degli animali. Il pavimento della stalla era coperto da lastre di pietra, oppure consisteva in terra battuta. Si ricordi che, nelle case rurali, prima dell’introduzione del gabinetto, si usava la stalla e, in particolare, il mucchio di letame. La stalla, in genere, era munita di una piccola finestra. Per quanto possa sembrare antigienico, specie in inverno, dato il tepore prodotto dalla fermentazione del letame e dal calore animale, la stalla diventava un luogo di ritrovo dove le donne scambiavano pettegolezzi o confidenze e, a volte, il fieno della lettiera diventava un’improvvisata alcova per amori furtivi:
Te ricordi bellina lì a ‘la stalla?
Tu guardavi ‘n cielo e i’ jò ‘n terra.
L’ovile: era alloggiato in un ambiente più piccolo della stalla dei bovini. Poteva essere addossato alla casa, o separato da essa. L’ovile offriva anche una preziosa fonte di sostanze organiche da usare come concime: prima dell’introduzione dei concimi chimici – la quale avvenne gradatamente a partire dalla metà degli anni Cinquanta del ‘900 – la principale risorsa usata per concimare la terra era lo sterco ovino proveniente dalla pulizia dell’ovile, effettuata una volta l’anno, in autunno, poco prima della semina. Ovviamente, per la concimazione si usava anche sterco bovino ed equino.
La stalla dell’asino e del cavallo: era sempre addossata all’abitazione, data la frequenza con cui si ricorreva a questi animali per il trasporto di persone o cose (ad esempio la legna).
Il porcile (stallittu / sturiju): era, in genere, separato dalla casa e formato da una piccola costruzione coperta da tetto a doppio spiovente e da una piazzola antistante, cinta da un basso muro.
Il pollaio (lu callinaru): era alloggiato in una piccola costruzione, in muratura o in legno, isolata, o adiacente alla stalla.
Il fienile e l’erbaio: nelle case in cui non era incluso o annesso alla costruzione, si ergeva sull’aia il covone (lu pajaru) da cui si prelevava, volta per volta, la quantità di fieno necessaria all’alimentazione del bestiame. Nei pressi della stalla vi era l’erbaio (lu fronnaru) destinato all’alimentazione del bestiame, ossia il deposito delle fronde essiccate, specie quelle dell’acero e dell’olmo. L’erbaio poteva essere contenuto nel magazzino degli attrezzi, oppure sistemato a formare un covone sull’aia.
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