Museo Civico di Leonessa (Ri)   -   (+39) 0746-923212

Super User

Super User

Saturday, 22 March 2014

Moduli abitativi

Moduli abitativi

Per quanto riguarda la tipologia delle case rurali dell’altopiano leonessano, una ricerca esaustiva non è stata ancora compiuta. Per questo motivo, tenendo in conto la sostanziale affinità tra i moduli abitativi del ceto rurale di Leonessa e quelli della confinante Valnerina, abbiamo adottato l’accurata tipologia, risultato delle ricerche di F. Bonasera, H. Desplanques, M. Fondi e A. Poeta, pubblicata nell’opera “La casa rurale nell’Umbria” edita dal Consiglio Nazionale delle Ricerche (Bonasera et al., 1955). Passiamo dunque in rassegna le principali tipologie di dimore rustiche secondo il criterio stabilito dai menzionati studiosi:

Casa con annessi incorporati: è composta dalla costruzione adibita a dimora del nucleo famigliare (o delle famiglie) nei cui muri perimetrali sono incorporati i “rustici”, ossia la stalla (o anche l’ovile, il porcile, il pollaio) il magazzino degli attrezzi e il forno. A questa tipologia appartenevano le case più povere e più antiche – quasi ovunque scomparse in Umbria – che Henri Desplanques classifica come “tipo elementare”, consistenti in una costruzione a un solo piano, con una sola stanza che fungeva da cucina e camera da letto e col “rustico” (in genere una piccola stalla) che formava parte integrante della struttura abitativa.

Casa con annessi addossati: in questa tipologia di dimora rurale,  i “rustici” non sono incorporati nella medesima fabbrica in cui si ubica l’abitazione, ma addossati alle pareti esterne della medesima 

Casa con annessi separati: la struttura abitativa è separata dagli annessi, o “rustici”. In questa tipologia, i “rustici” non sono né incorporati né addossati ma separati dalla casa e costruiti in prossimità di essa, anche in moduli separati, sfruttando lo spazio disponibile. In molte frazioni di Leonessa, i “rustici” sono separati dall’abitazione e comprendono, in genere, una stalla a piano terra e un fienile (pajaru) al primo piano accessibile mediante scala interna di legno. Il pavimento del fienile è composto da un tavolato poggiato su travi.

Casa con annessi distanti: questa tipologia in cui i “rustici” non solo sono separati dall’abitazione ma posti fuori del perimetro del paese, o del borgo, sull’altopiano leonessano è molto rara. Nella cinta muraria dell’antica Leonessa, ad esempio, una via parallela al corso – Via Durante Dorio – è conosciuta localmente come “via de le zeperélle”, ossia via dello sterco di capra, in quanto nelle parti basse delle abitazioni erano alloggiate le stalle. 

 Casa di tipo unitario con abitazione sovrapposta al rustico: è la più frequente a Leonessa e nelle frazioni. In questo modulo costruttivo, in un unico corpo architettonico sono contenuti la dimora sovrapposta al “rustico”, o ai “rustici” (stalla, magazzino, ecc.). La scala d’accesso al piano superiore, in questa tipologia abitativa, è posta all’esterno, meno spesso all’interno della costruzione. La scala esterna permette di risparmiare spazio all’interno del fabbricato e, se coperta, risulta ugualmente comoda anche nella brutta stagione.  La casa con abitazione sovrapposta al rustico presenta il vantaggio della necessità di un unico tetto, risparmiando in tal modo sulla parte più costosa della casa, dato che i coppi di copertura dovevano essere acquistati da artigiani specializzati (a Leonessa la fornace per i coppi era sita nella frazione di Volciano). Questa tipologia di modulo abitativo, inoltre, presenta il vantaggio della facile accessibilità ai “rustici” e, in specie, alla stalla. Nelle case più antiche, una botola di legno aperta nel pavimento della stanza da letto, permetteva di scendere direttamente nella stalla mediante una scala di legno. I disagi dal punto di vista igienico risultano più che evidenti, ma gli allevatori di un tempo preferivano tenere continuamente sott’occhio i loro animali ascoltando le loro voci e i rumori: «I “rumori delle bestie” – muggiti o belati; nitriti o ragli; lo scalpitare; il risuonare concitato delle catene alle mangiatoie – avvertono se il bestiame sta bene o male, se è irrequieto o infuriato, o se sta per partorire. E l’allevatore sa interpretare ognuno di questi “rumori”» (Chávez 2012: 57).

Per quanto riguarda la scala esterna, munita o meno di copertura e addossata a una parete della casa, questa permette l’accesso a un pianerottolo (in dialetto “balcone”) che può essere coperto da tetto, dal quale si accede alla cucina. L’ingresso alle stanze avviene passando dalla cucina. La scala esterna, inoltre, offre la comodità del sottoscala nel quale può essere alloggiato il pollaio, oppure  la conigliera.

Una tipologia abitativa a parte è costituita dalle case di pendio: i fabbricati addossati a una parete naturale. In questa tipologia manca la scala – interna o esterna – e l’ingresso all’abitazione avviene nella parte alta (posteriore) del fabbricato; l’ingresso ai “rustici” è sito invece nella parte bassa, o frontale. Il tetto è a un solo spiovente. Una scala interna, in genere di legno, permette di scendere ai “rustici”. Sovente, accanto all’abitazione del piano superiore è sito il fienile.

Per quanto riguarda le finestre, specie nelle zone a clima freddo, come appunto sull’altopiano leonessano, la loro apertura era  in genere molto ridotta onde evitare la dispersione di calore sicché la luce che attraversava la finestra permetteva appena di rischiarare l’ambiente. In alcune antiche dimore rustiche, le stanze più interne erano prive di finestre.

Per quanto concerne l’orientamento, la parte della casa esposta a settentrione, è in genere priva di finestre. All’interno della casa, nella parte settentrionale della stessa, una stanza senza finestre – la “stanza del freddo” –  era destinata a dispensa. La facciata della dimora rustica è volta, di preferenza, verso sud o sud-ovest in direzione dell’aia e nella medesima direzione guardano le finestre.

Il “casale. Le dimore rurali ubicate fuori dalla cinta muraria e fuori dai nuclei abitativi – le frazioni dette in dialetto “case” (ad es. Ca’ Bigioni, Ca’Pucini, ecc.) – sono comprese nella tipologia dei “casali”. In questo tipo di abitazione, il “rustico” non è mai separato dal modulo abitativo essendo incluso nel perimetro della costruzione. Può essere affiancato alla zona residenziale, o sottoposto ad essa, a piano terra. A volte, la cucina (piuttosto spaziosa) è posta a piano terra, accanto alla stalla. Dalla cucina, una scala interna sale al primo piano dove sono ubicate le stanze da letto  e il fienile. Quest’ultimo è munito di un “finestrone”, aperto giusto sopra la porta della stalla, dal quale il fieno – compresso nelle “balle” rettangolari, o raccolto in un ampio telo prima dell’uso del trattore, era fatto scendere mediante carrucola.

La stalla dei bovini: un tempo, era piuttosto piccola poiché la famiglia rurale possedeva, in genere, una vacca e un toro, o due vacche da usare nell’aratura e nei trasporti pesanti come animali da tiro. Il latte vaccino serviva a preparare il formaggio per il consumo domestico. Solo dopo la metà degli anni Cinquanta, quando si iniziò a praticare l’allevamento dei bovini da latte o da carne a scopo commerciale, la stalla assunse dimensioni molto maggiori. Nella stalla tradizionale, la mangiatoia era in muratura; il bordo esterno della stessa era formato da un trave munito di fori attraverso i quali passavano le catene legate al collo degli animali. Il pavimento della stalla era coperto da lastre di pietra, oppure consisteva in terra battuta. Si ricordi che, nelle case rurali, prima dell’introduzione del gabinetto, si usava la stalla e, in particolare, il mucchio di letame. La stalla, in genere, era munita di una piccola finestra. Per quanto possa sembrare antigienico, specie in inverno, dato il tepore prodotto dalla fermentazione del letame e dal calore animale, la stalla diventava un luogo di ritrovo dove le donne scambiavano pettegolezzi o confidenze e, a volte, il fieno della lettiera diventava un’improvvisata alcova per amori furtivi:

Te ricordi bellina lì a ‘la stalla?
Tu guardavi ‘n cielo e i’ jò ‘n terra.


L’ovile: era alloggiato in un ambiente più piccolo della stalla dei bovini. Poteva essere addossato alla casa, o separato da essa. L’ovile offriva anche una preziosa fonte di sostanze organiche da usare come concime: prima dell’introduzione dei concimi chimici – la quale avvenne gradatamente a partire dalla metà degli anni Cinquanta del ‘900 – la principale risorsa usata per concimare la terra era lo sterco ovino proveniente dalla pulizia dell’ovile, effettuata una volta l’anno, in autunno, poco prima della semina. Ovviamente, per la concimazione si usava anche sterco bovino ed equino.

La stalla dell’asino e del cavallo: era sempre addossata all’abitazione, data la frequenza con cui si ricorreva a questi animali per il trasporto di persone o cose (ad esempio la legna).

Il porcile (stallittu / sturiju): era, in genere, separato dalla casa e formato da una piccola costruzione coperta da tetto a doppio spiovente e da una piazzola antistante, cinta da un basso muro.

Il pollaio (lu callinaru): era alloggiato in una piccola costruzione, in muratura o in legno, isolata, o adiacente alla stalla.

Il fienile e l’erbaio: nelle case in cui non era incluso o annesso alla costruzione, si ergeva sull’aia il covone (lu pajaru) da cui si prelevava, volta per volta, la quantità di fieno necessaria all’alimentazione del bestiame. Nei pressi della stalla vi era l’erbaio (lu fronnaru) destinato all’alimentazione del bestiame, ossia il deposito delle fronde essiccate, specie quelle dell’acero e dell’olmo. L’erbaio poteva essere contenuto nel magazzino degli attrezzi, oppure sistemato a formare un covone sull’aia.

 

Wednesday, 22 January 2014

Attizzatoio, paletta e molle

Attizzatoio (suffiaturi). L’attizzatoio più usato a Leonessa è “lu suffiaturu”: un tubo di ferro, chiuso a martello a un’estremità e munito di foro, nel quale si soffiava sul fuoco per ravvivarlo. Oltre a normali tubi di ferro, spesso si usavano le canne di fucili ottocenteschi ad avancarica – come nell’esemplare custodito nel nostro Museo – trasformate tagliando la parte estrema della culatta, ribattendo a caldo l’estremità e praticando un foro in quella che era la camera di scoppio.    

Attizzatoio – suffiaturu (i. n. 263)

provenienza: Leonessa
materiale: ferro
descrizione: attizzatoio ricavato dalla canna di un fucile ad avancarica dell’Ottocento
misure: l. cm. 78,5; calibro interno della canna mm. 16
stato di conservazione: buono
acquisizione: dono Marcello D’Antonio

anno: 2003


Paletta da fuoco (fessóra). La paletta da fuoco, in lamierino di ferro piegato su tre lati, era munita di manico anch’esso di ferro, sovente lavorato a tortiglione, desinente nella parte terminale in un piccolo pomo, o in un gancio, o in un manico di legno.
Oltre che per gli usi consueti riguardanti la gestione del focolare domestico, la paletta da fuoco era impiegata per alcune operazioni di carattere apotropaico: prima di andare a dormire, si ricopriva la brace con una coltre di cenere in modo che si conservasse accesa per tutta la notte; dopo aver eseguito l’operazione, sulle ceneri si tracciava con la paletta una croce per tener lontane le entità malefiche che, col favore delle tenebre, avessero tentato d’entrare in casa. Fra di esse, le temute sdreghe le quali, nottetempo, s’introducevano nella stanze immerse nella meritata quiete del sonno per suggere il sangue dal corpo dei neonati. Al momento di tracciare la croce sulla cenere, si usavano recitare speciali formule, come la seguente:

Tutti l’angeli su pe’ casa
e lu diavulu sott’a la bracia.

L’altro impiego “rituale” della paletta da fuoco, specie nella tarda primavera o all’inizio dell’estate, aveva luogo nell’imminenza di un temporale, o d’una grandinata che avrebbe potuto compromettere in modo irrimediabile il raccolto ormai prossimo. Per stornare l’incombente calamità, oltre a recitare formule che invocavano l’aiuto dei santi (specie di S. Barbara protettrice dal fuoco celeste) si usava riempire di brace ardente la paletta del focolare disponendovi sopra delle foglie d’ulivo benedetto nella Domenica delle Palme e/o un pezzetto di candelina della Candelora. Si lasciavano bruciare questi ingredienti in modo che il fumo benedetto salisse verso le nubi.
Quando, durante la notte, si udiva la civetta lanciare il suo lamentoso richiamo, si brandiva la paletta da fuoco in direzione del temuto strigide, ritenuto araldo della morte, pronunciando la seguente formula:

Commà’, pàssame la fessóra
pe còce’ ‘l culu a chi canta a quest’ora.

L’usanza leonessana trova puntuale riscontro con un’analoga usanza in voga nella Campagna Romana e nella Roma papalina.


Molle da fuoco (majòle). Le più elaborate, e anche le più antiche, avevano le due parti mobili in tondino di ferro spianato a caldo col martello nel punto d’unione, in modo da fungere da molla. Le parti mobili della molla da fuoco terminavano in due estremità, anch’esse appiattite a martello in modo da facilitare la presa.
A volte, allo scopo di tener lontane le influenze nefaste, prima di concedersi il riposo notturno, si usava disporre in croce sul piano del focolare la paletta e le molle: il potere apotropaico del ferro assieme a quello del sacro segno della Passione avrebbero assolto in modo efficace la loro funzione garantendo la sicurezza della casa e del nucleo domestico.

 

Wednesday, 22 January 2014

Treppiedi e altri supporti

Treppiedi (treppiedi) e supporti in ferro.
I tradizionali treppiedi da fuoco, di varie dimensioni, presentano il piano d’appoggio del recipiente di forma anulare, in piattina di ferro. Ad esso, mediante rivetti, sono fissate tre zampe, anch’esse in piattina di ferro, con le estremità inferiori ripiegate a fungere da piedi. Altri treppiedi, in genere di piccole o medie dimensioni e anch’essi tondi, sono costruiti con tondino di ferro piegato, accoppiato e saldato assieme a formare le gambe; i piedi sono ottenuti piegando e martellando le giunzioni finali. Esistono anche, sebbene più rari, treppiedi di forma triangolare usati in genere per piccoli recipienti.

 

Treppiedi da focolare – treppiede (n. i. 91)

provenienza: Villa Bigioni (Leonessa)
materiale: ferro
descrizione: anello in piattina di ferro con tre piedi, anch’essi in piattina, fissati a rivetto. Lavorazione artigianale
misure: h. cm. 17,8; diam. cm. 23; piattina : lg. cm. 2,8 spess. medio mm. 5
stato di conservazione: discreto
acquisizione: rinvenimento

anno: 2003
bibliografia: Scheuermeier 1996, II: 70; 71 fig. 186

Piccolo treppiedi in ferro di forma tonda costruito con tondino di ferro accoppiato e saldato a formare le gambe. Dalla frazione di  Villa Bigioni: h. cm. 6,5; lg. max. cm. 20,2. Collezione privata.

Supporti in ferro per tegami e padelle.
I supporti per tegami e padelle sono formati dal tipico treppiedi il cui terzo piede non è fissato al piano d’appoggio del recipiente ma a un lungo manico che serve da supporto ai tegami, o più spesso alle padelle. Il supporto del treppiedi in piattina di ferro, piegato verso l’alto, presenta l’estremità superiore a forma di coda di rondine nel cui incavo veniva appoggiato il manico del recipiente durante l’esposizione al fuoco. Il terzo piede, fissato al supporto del treppiede, in genere è ricavato da un tondino di ferro con l’estremità superiore ribattuta in modo da fissare il piede al manico, come nell’esemplare seguente.
    

Treppiedi porta padelle da focolare – treppiede (n. i. 105)

provenienza: San Vito
materiale: ferro
descrizione: il treppiedi, formato da un anello piano fornito di  piedi, è munito di un lungo manico che funge da supporto, piegato all’estremità superiore, desinente in una forcina a coda di rondine destinata ad alloggiare il manico dei recipienti da cottura
misure: h. cm. 15,6, l. fino alla piegatura cm. 54,2, parte verticale cm. 26,7, diam. cm. 20,2; piattina: lg. cm. 1,8, spess. mm. 5
stato di conservazione: ottimo
acquisizione: dono di Livio Vittucci, “lu fiju de Paulucciu

anno: 2012
bibliografia: Scheuermeier 1996, II: 28 fig. 36; foto 46

  

Wednesday, 22 January 2014

Graticole

Graticole (craticole).
La graticola tradizionale leonessana per uso casalingo era di ferro, costruita artigianalmente. Munita di un manico piatto, fornito di gancio per appenderla quando non era in uso, e di quattro piedi, veniva appoggiata sul piano del focolare, già molto caldo, cosparso di brace.

L’uso dell’arrosto sulla brace avveniva in special modo in occasione di eventi festivi, oppure nel periodo in cui veniva macellato il maiale, o una pecora e v’era abbondanza di carne fresca. La cottura della carne sulla graticola è da considerarsi, comunque, un costume celebrativo non facente parte della quotidianità. Oltre alla carne di maiale, sebbene più raramente, sulla graticola si cuoceva la pecora per la quale si preferiva piuttosto la cottura nel paiolo.
Sulla graticola si preparava anche “la panonta”: fette di pane sulle quali si lasciava colare il grasso del guanciale (barbazza) fino a intriderle completamente. Sul pane, una volta unto in abbondanza col grasso fuso, si adagiavano le fette abbrustolite del guanciale.
Le fette di polenta avanzate da un pasto precedente potevano essere abbrustolite sulla graticola, oppure fritte con lo strutto in padella.
Nella cucina tradizionale leonessana la cottura delle verdure grigliate non era praticata.

graticola di fabbricazione artigianale: tipologia generale

Graticolacraticola (n. i. 90)

provenienza: Villa Bigioni
materiale: ferro
descrizione: la graticola si compone di una piattina di ferro che funge anche da impugnatura, assottigliata e ripiegata ad asola nell’estremità superiore, la quale passa al centro della griglia di cottura. Questa è formata da due piattine di ferro, ortogonali alla piattina centrale e parallele tra esse, fissate da quadrelli di ferro – tre a destra e tre a sinistra della piattina centrale – assicurati mediante rivetti. Le due piattine sono ripiegate ad entrambe le estremità le quali fungono da piedi. Fabbricazione artigianale
misure: l. tot. cm. 67,3; piano di cottura: cm. 31 x cm. 28,5; piattina centrale: lg. cm. 2,2 spess. medio mm. 3; quadrelli: mm. 6
stato di conservazione: buono
acquisizione: dono

anno: 2003
bibliografia: Scheuermeier 1996, II: 183

 

Saturday, 22 February 2014

La cucina

La cucina

Nella casa rurale tradizionale, la cucina non era solo la stanza dedicata alla preparazione dei cibi, era anche il principale luogo di ritrovo per i membri del nucleo famigliare e il luogo in cui veniva accolto chi giungeva in visita. La cucina era il solo ambiente sempre riscaldato della casa rurale. In cucina, inoltre, specie nella stagione fredda, si svolgevano lavori domestici come, ad esempio, il filato e il cucito. L’accesso alla dimora rustica avveniva attraverso la cucina sulla quale si apriva la porta del corridoio che portava alle stanze, oppure la porta dell’unica stanza da letto, o delle stanze da letto. Lo spazio occupato dalla cucina era piuttosto ampio, comunque, più ampio di quello dedicato alle altre stanze. Al centro della cucina, il tavolo attorno al quale si riuniva la famiglia per prendere i pasti. Oltre al tavolo, pochi mobili: una piattaia; un asse di legno munito di ganci – detto “‘ppiccarame” – cui venivano appesi pentole e tegami di rame; una credenza (spesso sostituita da una nicchia o un vano nella parete fornito di tavole); la madia (arca) usata per la preparazione del pane e per riporvelo; sedie e panche. L’acquaio tradizionale era ricavato da un blocco di pietra scavato a scalpello poggiato su due supporti in muratura. Prima dell’introduzione della rete idrica, accanto all’acquaio vi era il deposito d’acqua: la botticella di legno (cupélla) o il tino costruito con doghe (lu bigunciu). L’acqua da bere era contenuta nella “conca” di rame. Dal tetto della cucina pendevano “le stangarèlle”: lunghi bastoni appesi al soffitto mediante anelli di ferro, ai quali si appendevano pannocchie di granturco, serti di aglio e cipolle, derrate alimentari (ad esempio il lardo da usare in cucina, o il pesce affumicato). Alle pareti erano appesi i vari setacci da usare per la preparazione del pane e della pasta.

Il focolare. Il cuore della cucina rurale e dell’intera dimora era il focolare. Prima dell’introduzione delle cucine a carbonella, i cibi venivano cotti sul fuoco del focolare. Il focolare, inoltre, fungeva da naturale centro d’aggregazione per i componenti della famiglia e anche per i vicini che, alla sera, solevano andare in visita e sostare attorno al fuoco. Per quanto riguarda la posizione, il focolare leonessano non è mai posto al centro della stanza, ma addossato a una parete della cucina. Il piano del focolare (aròla, dal lat. areola) si alza sul pavimento per circa 20 o 30 cm.. I focolari più antichi erano più grandi e profondi dei più recenti che, più che per cucinare, servono per riscaldare. La cappa, in muratura, era munita sul davanti di una mensola di legno poggiata sul trave frontale del focolare sulla quale veniva posta la lampada e altri oggetti.

Il focolare come centro d’aggregazione. «Il focolare domestico era tenuto sempre acceso durante il giorno a iniziare dalle primissime ore del mattino poiché le donne usavano cucinare sulla fiamma del camino dove, appeso alla catena, vi era sempre “lu callaru” di rame stagnato: il capiente caldaio rifornito continuamente d’acqua, mentre sui tripodi di ferro si poggiavano i tegami per cucinare. Di notte le braci venivano ammucchiate con la paletta di ferro e ricoperte d’una coltre di cenere, azione fatta oggetto di speciali precauzioni rituali. Semisepolta nella cenere veniva lasciata, durante la notte, la pignatta di terracotta fornita di manico (la pigna) in cui si facevano ammollare ceci, o fagioli secchi per la minestra del giorno seguente: Accanto al fuoco, di giorno, sostavano i più vecchi della famiglia occupati in piccole faccende e lavori minuti, oppure le donne addette alla filatura della lana, o impegnate a collaborare nella preparazione dei pasti.

Mentre nello spazio comune del vissuto quotidiano vi erano spazi riservati agli uomini e altri alle donne, il focolare per sua natura favoriva la socializzazione indipendentemente dal sesso e dall’età: questa, dal punto di vista culturale, era la sua più importante funzione. Dopo cena, infatti, il camino acquisiva una diversa dignità: diventava il centro attorno al quale si svolgeva la vita famigliare ed avveniva, in modo speciale, la trasmissione della cultura tradizionale. Attorno al fuoco si recitava il rosario serale assieme alle preghiere corrispondenti alle feste più sentite e importanti del calendario liturgico e della devozione famigliare.

Attorno al fuoco si discutevano questioni di famiglia, problemi riguardanti il lavoro, si prendevano assieme le decisioni più importanti. Attorno al fuoco gli anziani entravano in contatto coi giovani, un contatto assai più diretto di quello quotidiano che avveniva sul lavoro, o nei brevi momenti dei frugali pasti comunitari. Attraverso la parola degli anziani, il patrimonio tradizionale della cultura rurale veniva riproposto, riaffermato, veicolato ai giovani. In una parola, avveniva quel necessario processo di “tramandamento” che è proprio della tradizione quand’essa è ancora viva e operante. E la tradizione forgiava nei giovani la coscienza dell’identità culturale assicurando alla comunità rurale la persistenza nel tempo di tale identità. Un’identità profondamente religiosa i cui punti ideali di riferimento erano Cristo, la Vergine, i santi, gli eroi della storia patria e quelli delle storie attinte al repertorio della grande poesia di Dante, Ariosto, Tasso che veniva appresa a memoria. Sottratti alle rarefatte regioni della grande creazione poetica e al dominio colto dei letterati, pur non avendo perso nulla della loro nobiltà, gli antichi cavalieri erano divenuti eroi del popolo ed erano da questo amati, sognati, additati ad esempi di vita. Assieme ad essi erano entrati a far parte della tradizione popolare anche i grandi eroi della storia più antica assieme a personaggi d’una storia molto più recenti: i briganti. Le narrazioni iniziavano dopo la recita del rosario, mentre la cucina era immersa nella penombra rischiarata dai bagliori del fuoco.

Dopo cena ogni lume era spento per ridurre il consumo d’olio o di sego. Spesso si risparmiava anche la legna perché due o più famiglie si riunivano a turno presso uno stesso focolare. Quando ci si recava in casa d’altri per passare la serata accanto al fuoco si usava una parafrasi: “ce jimu a ssede’: ci andiamo a sedere” e l’incontro si chiamava “la seduta”. Ai convenuti si usava offrire piccole pere selvatiche (pera pazze) conservate in un tino con acqua che, col tempo, diventava acidula. Oppure si offrivano loro mele selvatiche (schianchi) lasciate maturare a lungo sotto la paglia. Ma soprattutto si metteva in comune il dono sacro del fuoco, simbolo d’ospitalità, solidarietà e della famiglia». (Polia-Chávez 2002: 35-37).

In omaggio al valore sacrale della fiamma del focolare domestico, si evitava di sputare nel fuoco o di gettarvi immondizie o lordure. Si gettava, invece, nel fuoco l’acqua usata nei riti di lecanomanzia effettuati per diagnosticare la presenza dell’invidia e del malocchio e neutralizzarne gli effetti perniciosi. In questo caso, il potere purificatore del fuoco avrebbe svolto una funzione benefica.

We have 34 guests and no members online