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Saturday, 22 March 2014

La pasta

La pasta fatta in casa
La severa autarchia d’un tempo, contando con la disponibilità di farina di grano e con le uova del pollaio, imponeva la preparazione domestica della pasta. A questa attività la donna era avviata fin da bambina. La massa per la pasta era ottenuta con farina e acqua o, nelle ricette festive, con farina e uova fresche. La preparazione della pasta iniziava fin dalle prime ore del mattino in modo che avesse tempo di asciugare adeguatamente. Per questa operazione, si stendeva la pasta già tagliata su una tovaglia stesa sul letto in modo da lasciar libera la tavola da pranzo. L’unica pasta non prodotta in casa erano gli spaghetti della vigilia di Natale comprati allo spaccio assieme agli ingredienti per la salsa di magro: conserva di pomodoro e alici, o tonno.

Alla preparazione della pasta fatta in casa, ingrediente fondamentale dell’alimentazione campagnola, le donne erano avviate fin da bambine. Giunte in età da matrimonio, avevano ormai raggiunta una notevole abilità nella gestione ottimale delle tre fasi più delicate del ciclo di preparazione della pasta: l’impasto; la stesura uniforme e sottile della sfoglia; il taglio preciso e veloce. In entrambe le versioni, con o senza uova, la pasta fatta in casa permetteva una preparazione del tutto autarchica poiché le uova provenivano dal gallinaio domestico e la farina dal raccolto del grano. La pasta con le uova era preparata soprattutto nei giorni di festa, quella con acqua e farina per le ricette quotidiane. Per ottenere una massa compatta ed elastica, per un chilo di farina di grano tenero occorrono cinque uova; se si usa l’acqua, ne occorre circa mezzo litro. Attrezzi indispensabili sono: gli stacci (sodacci) per setacciare la farina; la tavola per stendere la sfoglia (spianatora); il matterello; il coltello pesante e ben affilato per il taglio delle diverse pezzature di pasta, usato anche per raschiare la tavola. Le massaie iniziavano il lavoro al mattino presto, prima di accudire gli animali e la domenica prima di recarsi a messa, in modo che la pasta avesse il tempo sufficiente per asciugarsi fino al momento della cottura. Ottenuto il taglio desiderato, si sparpagliava la pasta sulla spianatora leggermente cosparsa di farina e la si lasciava asciugare. Se la quantità era abbondante, si stendeva sul letto matrimoniale una tovaglia su cui si sistemava, spargendola, la pasta in modo che restasse esposta all’aria in modo uniforme.

Diamo una lista dei tagli di pasta fatta in casa più comunemente usati nella cucina leonessana.
Fettuccine: ottenute tagliando la sfoglia, lavorata fina, in strisce lunghe quanto la sfoglia. Dopo aver ripiegata varie volte la sfoglia su sé stessa, poggiando l’estremità ricurva del coltello sulla tavola, la donna premeva leggermente la sfoglia con le tre dita mediane della mano sinistra ed eseguiva il taglio basculando il coltello. Arretrando velocemente le dita, otteneva tagli uniformi. Tagliata tutta la sfoglia, si svolgevano le porzioni arrotolate spargendole sulla tavola. La larghezza media della “fettuccina” era di 0,5 – 1 cm.
Tajulini, tagliolini: ottenuti tagliando la sfoglia in strisce più sottili di mezzo cm., erano usati per brodo e minestre.
Fregnacce: quando si volevano ottenere tagli della stessa lunghezza, si ritagliava la sfoglia in modo da ottenere a grosso modo un quadrato. Le parti marginali della sfoglia scartate nella lavorazione, una volta tagliate in modo irregolare, erano usate per preparare le “fregnacce”, sorta di maltagliati da condire con un battuto di lardo, o sugoa base di conserva di pomodoro.
Ciciarèlli: usati per le minestre, si ottenevano tagliando a piccoli tocchi vermicelli di pasta piuttosto grossi ottenuti usando le palme delle mani.
Sfusellati, preparazione più laboriosa sfoggiata per le grandi occasioni, erano ottenuti avvolgendo la sfoglia tagliata in strisce sottili attorno a un ferro di sezione quadrata (si usavano all’uopo i ferri degli ombrelli).
Strengozzi, si stendeva la sfoglia meno sottile di quanto occorreva per i tagliolini e la si tagliava in strisce larghe due o tre millimetri, spesse altrettanto, la cui forma ricordava, appunto, quella delle stringhe di cuoio delle scarpe.
Pasta ‘ntrisa: si preparava tagliando a fettine la massa di farina e uova senza stendere la sfoglia. La si usava per minestre, o asciutta condita con battuto di lardo, o salsa di conserva di pomodoro e cacio pecorino.
Frascarelli, detti anche “pinnirieji”: erano ottenuti formando sottili cannoli di pasta con le palme delle mani strofinate sulla “spianatora”.
“Sagne”: un taglio speciale di pasta all’uovo, preparato specialmente per le occasioni festive, era “la sagna”, taglio corrispondente, grosso modo, alle nostre lasagne. Per questa preparazione, si tagliava la pasta in strisce piuttosto larghe (2–3 cm.). “Le sagne”, per tradizione, erano preparate alla vigilia dell’Epifania. Il loro consumo era considerato propiziatorio di abbondanza. A questo proposito, si usava dire:

Chi non fa la sagna
tuttu l’annu se lagna.

La medesima formula, in alcune frazioni, era pronunciata il primo dell’anno, quando, per propiziare abbondanza per tutto l’anno, veniva preparata in casa pasta all’uovo per il pranzo di capodanno.

Strascinati: «Era il nome vernacolare dato a un piatto di vermicelli (penghi) ottenuti con farina, acqua e sale, saltati in padella con guanciale, salsicce fresche, uova e cacio pecorino (secondo Ansano Fabbi, che attinge a un’antica cronaca, la ricetta fu inventata nel 1494 dalle donne di Monteleone per sfamare i capitani delle truppe che avevano invaso il castello)». (Chávez 2012: 152-154).

La cucina rurale della Valnerina, poco o nulla differisce da quella del contado di Leonessa. I suddetti modi umbri di tagliare la pasta fatta in casa vanno integrati con quelli usati a Leonessa. Qui i “tajulini” erano preparati arrotolando la pasta sul matterello fino ad avvolgerlo del tutto. Una volta avvolto, si tagliava per lungo la sfoglia e, srotolandola, si otteneva una striscia larga circa quattro o cinque centimetri. Tagliandola nel senso della larghezza, si ottenevano striscioline lunghe quanto la larghezza della sfoglia, larghe circa mezzo centimetro. Le “fettuccine”, invece, erano ottenute ripiegando varie volte su se stessa tutta la sfoglia e quindi tagliandola in striscioline larghe circa un centimetro. Ottenuti dei cannoli a sezione rotonda, con un diametro da tre e cinque mm. circa, li si tagliava, o spezzava a mano, ottenendo segmenti di una decina di centimetri di lunghezza. Anche in Umbria, come a Leonessa, i maltagliati erano chiamati “fregnacce”.   


Salse per condire la pasta: lu sugu”.
Le varietà di salse nella cucina leonessana non erano molte. Per la loro preparazione, quando si usava la carne, s’impiegava carne di porco o di pecora. Vi è da dire che, nella cucina rurale, l’uso della pastasciutta soddisfaceva le esigenze di un’economia strettamente autarchica dal momento che sfruttava essenzialmente risorse alimentari prodotte dal nucleo famigliare: la farina di grano, le uova, la carne. Per quanto riguarda il pomodoro, il suo uso entrò abbastanza tardi nella cucina rurale sotto forma di concentrato di pomodoro (“la conserva”). Dato il clima, gli orti famigliari di Leonessa non producevano pomodoro, o almeno non pomodori da sugo. Il concentrato di pomodoro ottenuto in casa era sconosciuto alle massaie leonessane, come pure a quelle umbre delle zone montane, le quali compravano allo spaccio alimentare “la conserva” in quantità sufficienti alla preparazione della salsa. Il concentrato di pomodoro veniva venduto sfuso calcolando la quantità con la cucchiaia di legno e depositando il contenuto su carta oleata. In alcune zone, come in certi paesi della Valnerina, si barattavano uova in cambio di concentrato: “du’ ova de conserva” equivalevano al contenuto di una cucchiaia di legno (circa 50 gr.) barattata in cambio di un paio di uova. Disciolta la conserva in acqua, la si versava sopra il battuto di lardo e cipolla, oppure si preparava la salsa con pezzetti di carne, o salsicce e concentrato di pomodoro. L’uso del sedano e della carota fu adottato in tempi relativamente recenti.

La preparazione della salsa domenicale iniziava al mattino presto e, se la salsa non era pronta prima dell’ora della messa, la sua cura era affidata alle donne che restavano in casa. Si narra di una massaia facente parte del coro parrocchiale la quale, impegnata in chiesa nell’esecuzione dell’Ave Maria di Schubert, vide passare la figlia cui aveva affidato la cottura della salsa e che credeva fosse in casa intenta alla consegna. Il cuore della brava donna ebbe un sussulto e, senza smettere di modulare la dolce melodia, v’inserì la variante “lu suguuu?...” continuando poi a cantare come se niente fosse.


Salsa per gli gnocchi
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La salsa tipica usata per condire gli gnocchi di patate impiegava carne di pecora, specie di castrato, e conserva di pomodoro.

Salsa in bianco per la pasta.
Consisteva in un battuto di guanciale, o lardo, versato bollente sulla pasta, condendo con cacio di pecora stagionato. Una variante della ricetta usava versare sulla pasta bollente, assiema al guanciale o lardo, uova battute.

Salsa di magro per la vigilia di Natale.
Per preparare gli spaghetti di magro per la cena di Natale, si usava comprare la pasta dal rivenditore assieme alla conserva di pomodoro e alle alici salate. Chi poteva, invece delle più economiche alici comprava il tonno, che era venduto sfuso. Come si vede, tutti gli ingredienti per la preparazione degli spaghetti di magro erano acquistati, non prodotti dal contado. Questo fatto testimonia come l’uso di questa ricetta natalizia fosse adottato piuttosto tardi dal contado (forse fra gli anni Trenta e Quaranta del Novecento) essendo importato dalle città. Per la cena di Natale, infatti, si usavano un tempo zuppe di legumi, specie di fagioli, senza aggiunte di grassi animali. Ancor oggi, in Valnerina, gli anziani più osservanti delle tradizioni avite, pur consumando gli spaghetti di magro, esigono un poco di zuppa di fagioli.

                                        

Utensili per preparare la pasta:
la tavola usata come piano di lavoro; il matterello; il coltello. Per alcuni tagli di pasta si usavano speciali ferri a sezione quadrata.

 

Saturday, 22 March 2014

La pala

La pala da forno.
Per infornare il pane si usava un’apposita pala monoxila ricavata, in genere, da un unico pezzo di faggio. Sulla parte piana della pala, priva di angoli vivi, si appoggiava la pagnotta da deporre sul fondo riscaldato del camino.


Pala da forno
pala pe’ ‘nfornà (n. i. 61)

provenienza: Leonessa
materiale: legno di faggio
descrizione: pala monoxila
misure: l. cm. 184,5; manico a sezione arrotondata ovaloide: diam. cm. 5 e cm. 4
stato di conservazione: buono (mancante dell’estremità del manico)
acquisizione: dono di Tonino Zelli
anno: 2012
bibliografia: Scheuermeier 1996, I: 203

Il mondatoio (lu rimónniru).
Per pulire il piano del forno prima della cottura del pane, si adoperava un bastone lungo un paio di metri all’estremità del quale, mediante del filo di ferro, erano legati degli stracci. Lu rimónniru era usato anche per allontanare dal piano di cottura i restanti residui di brace dopo aver liberato il piano di cottura mediante una pala.

La tavola per il trasporto del pane.
Una volta terminata la lievitazione, I “filoni” di pane erano disposti l’uno a fianco all’altro, su una tavola di legno coperta da un panno di lino o di canapa (lu pannèllu) per essere trasportati al forno. La tavola, sistemata in perfetto bilanciamento, veniva posta sulla testa della donna poggiandola su un cercine (roccia). In questo delicato genere di trasporto, l’abilità delle donne era davvero eccezionale anche quando si trattava di salire o scendere per le scale o affrontare salite o discese. Oggi, in occasione del “Palio del Velluto” viene eseguita una gara riservata alle donne consistente nel trasportare il pane sulla tavola come ai vecchi tempi.


Tavola da trasporto del pane
(n. i. 52)

provenienza: Leonessa
materiale: legno di pioppo
descrizione: tavola usata per trasportare il pane. Si compone di due tavole appaiate unite, nel retro, da due traversine
misure: cm. 113 x cm. 46; spess. mm. 18
stato di conservazione: buono
acquisizione: dono di Maria Zelli
anno: 2003

La coperta per il trasporto.
Sui filoni stesi sulla tavola da trasporto, veniva steso un panno di lino, o di canapa di forma rettangolare detto “mantile” o “mandile” (termine derivato dallo spagnolo mandil: “tovaglia”) e anche “bandinèlla” (nome dovuto alla forma rettangolare allungata).

Saturday, 22 March 2014

Forno e cottura

Cottura: la gestione comunitaria del forno da pane.
Per quanto riguarda il forno da pane, vi è da distinguere tra forni privati, gestiti da una sola famiglia o da un gruppo di famiglie congiunte da vincoli di parentela, e forni pubblici costruiti dal Comune e gestiti dalle famiglie residenti in un borgo, o nelle frazioni dei paesi. Nel primo caso, quando si trattava di moduli abitativi rurali isolati nei campi (casali) il forno era separato dal fabbricato della casa, formava un corpo a sé ed era ubicato nelle adiacenze della cucina. Nelle case rurali aggruppate nei borghi, il forno a gestione famigliare era alloggiato in un piccolo corpo in muratura addossato al corpo della casa. In alcuni casi, nei moduli abitativi muniti di accesso esterno mediante scala addossata al fabbricato, il forno poteva essere ubicato nella loggetta coperta sita all’estremità superiore della scala d’accesso, di rimpetto alla porta della cucina, la quale nelle case rurali costituiva la porta d’entrata alla casa. 

I forni gestiti comunitariamente dagli abitanti di un borgo, o d’una frazione, posti in genere al margine d’una piazzetta, costituiscono un modulo architettonico a sé stante coperto da tetto a doppio spiovente sul quale s’innalza il comignolo. Il forno in cui avviene la cottura del pane, costruito in muratura con pianta circolare e coperto a volta, con piano in mattoni – chiuso da sportello asportabile in ferro – è preceduto da un vano coperto il quale reca sul lato destro e sul sinistro una serie di tavole poggiate su sostegni di legno murati alla parete e destinata ad appoggiarvi le tavole coi pani prima e dopo la cottura. In alcuni forni, sul retro, si apre una piccola legnaia destinata ad alloggiare le fascine e il legname minuto occorrente alla cottura.

La legna necessaria alla cottura era portata sul posto dalle famiglie che si erano accordate per cuocere il pane in quel giorno. Una volta arse le fascine e scaldato convenientemente il piano di cottura, mediante una pala si provvedeva a sistemare le braci tutt’attorno al perimetro dello stesso e, mediante apposito bastone fornito di stracci, si provvedeva altresì a liberare il piano di cottura da residui di brace o carboni che avrebbero potuto inserirsi nella massa del pane. Chiuso lo sportello di ferro, si attendeva la cottura.

«Verso la fine degli anni Sessanta del secolo scorso, un po’ dovunque, i forni pubblici utilizzati dagli abitanti dei borghi smisero di fumare. Il declino di quest’antichissima, tradizionale incombenza femminile, si deve alla maggior disponibilità di denaro liquido, alla consistenza molto più esigua dei nuclei famigliari e alla più scarsa disponibilità di tempo. A ciò, va aggiunto il consistente spopolamento dei borghi rurali che rendeva difficile svolgere un lavoro comunitario come quello richiesto dalla gestione inter-famigliare del forno pubblico. Occorre, inoltre, tener presente che la panificazione richiede, da parte della massaia, un impegno abbastanza gravoso in termini di ore lavorative. Insomma, il pane bianco acquistato dal fornaio rientra nel numero delle “commodità” cittadine adottate progressivamente dal contado a partire dal dopoguerra». (Chávez 2012: 142).

La cottura del pane, operazione delicata da cui dipendeva il buon esito della panificazione e la provvista bisettimanale del pane quotidiano, era soggetta ad alcune precauzioni rituali di tipo apotropaico volte ad allontanare dal pane in cottura i temuti influssi della fascinazione: il malocchio e l’invidia (l’òcchiu; la ‘mmidia). Prima di disporre il pane sul piano di cottura, rivolte verso le massaie si segnavano e, introducendo il pane, dicevano “Nel nome del Padre”, oppure “Il Signore ti benedica”; una volta chiuso lo sportello del forno, vi tracciavano sopra una croce usando la mano, o la pala da forno, e alcuni erano soliti pronunciare la formula: “San Martino l’accresca”.

Tra gli usi magico-terapeutici del forno da pane vi è da menzionare l’esposizione alla bocca del forno, mentre il pane era in cottura, dei bambini “allupati” / “allupiti”: neonati partoriti da donne che, essendo incinte, s’erano cibate delle carni di animali sgozzati dal lupo. Si credeva che i neonati acquisissero caratteristiche lupine che si manifestavano in una innaturale aggressività e irrequietezza. L’esposizione al calore e al profumo del pane in cottura avrebbero neutralizzato il “veleno” inoculato dal lupo.
               

Strumenti usati per infornare il pane.
Gli strumenti utilizzati per trasportare il pane fino al forno e per la sua cottura erano: la tavola da trasporto; il cercine per sistemare la tavola sulla testa; il tessuto con cui il pane veniva coperto durante il trasporto al forno e dal forno per preservarlo dalla polvere e, d’estate, dalle mosche; la pala da forno usata per infornare e sfornare; il mondatoio per tener pulito il piano di cottura.


Cottura sotto la brace del focolare
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Alternativa alla periodica cottura del pane nel forno, la cottura di focacce sotto la brace del focolare domestico era usata occasionalmente.

Cottura sotto la teglia.
Specie in occasioni festive, alcuni dolci o focacce erano cotte non nel forno ma sul piano del focolare usando come copertura una teglia. Questo tipo di cottura, non esente da una connotazione sacrale, ripete l’antico metodo usato nella Roma antica per preparare le offerte (liba) destinate agli dèi. Si ricordi, a questo proposito la derivazione dalla parola “teglia” – dial. umbro “tegghia” – dal latino tegula. (A Leonessa “sóru” dal lat. solum).

Cottura sotto la cenere.
Era in genere riservata alle saporite patate prodotte sull’altopiano leonessano. Dopo averle disposte sul piano del focolare, le si ricopriva con brace e uno strato di cenere fino a cottura ultimata.


Uso devozionale del pane
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Per quanto riguarda l’uso del pane in contesti devozionali, ricordiamo i principali:

Il pane dei morti:
nella festa d’Ognissanti venivano preparati da ogni famiglia dei piccoli pani contrassegnati da una croce. Al mattino, i poveri e i bambini si recavano di casa in casa e, in cambio della recitazione di un padrenostro e di un requiem per i defunti della famiglia, ottenevano un “pane de li mórti”. Un tempo, nel Leonessano, si usava preparare per Ognissanti dei dolci speciali detti “le fave de li morti”, sostituto delle zuppe di fave secche distribuite altrove ai poveri nella medesima occasione.

Il pane di S. Nicola:
in alcune frazioni, come ad esempio ad Albaneto e a Vallunga, in occasione della festa di S. Nicola di Mira, poi di Bari, si preparavano le “pagnottèlle de san Nicola”. Per cuocere questi piccoli pani, durante la novena in onore del santo, che iniziava il 26 novembre, si raccoglievano solo cespugli spinosi e rovi, trascinati in fasci fino ai villaggi. Nello stesso periodo si macinava il “fiore” del grano, ossia il grano scelto da utilizzare per la preparazione delle pagnottelle della quale erano incaricate solo ragazze vergini. Le verginélle lavoravano di notte e avevano diritto alla colazione con latte e caffè e biscotti o pane abbrustolito, oltre a ricevere in dono razioni di caldarroste, o biscotti con un goccio di vino. Ogni famiglia sui faceva carico della preparazione di una certa quantità di pani sui quali veniva apposto il segno SN (S. Nicola) sormontato dal profilo d’una mitria vescovile. Nel forno veniva acceso il fuoco di rovi e le vergini che avevano preparato il pane dovevano portarlo al forno sulle apposite tavole poggiate sulla testa ma senza il cercine. Se sullo sportello di ferro del forno, durante la cottura, si formavano goccioline di condensa, il segno era interpretato in senso fausto poiché quelle goccioline erano assimilate alla celebre “manna” che, a Bari, distilla dalle ossa del santo protettore delle vergini povere. Le ceste coi pani venivano portate in chiesa per esservi benedette nel giorno della festa del santo, quindi da ogni famiglia le pagnottelle erano distribuite in dono.

Nella frazione di Vallunga, il 10 settembre, festa di S. Nicola da Tolentino, venivano preparati speciali pani formati ognuno da tre o sei piccole masse congiunte di pasta lievitata. Cotto nel forno, contenuto in cesti di vimini adorni di fiocchi rossi, era benedetto in chiesa e quindi distribuito.

Il pane di S. Antonio abate.
In occasione della festa di S. Antonio abate, cui il popolo aveva attribuito il ruolo di patrono degli animali domestici, si preparavano piccoli pani che, una volta benedetti, venivano somministrati agli animali in caso di malattia.

Per quanto riguarda il generale rispetto nei confronti del pane, ci limitiamo a ricordare alcuni tabù: porzioni di pane, anche piccolissime, molliche, frammenti non potevano essere gettati via. In genere venivano riutilizzati come mangime per gli animali. Si credeva che, dopo la morte, lo spirito di chi avesse gettato via pezzi di pane sarebbe stato costretto a raccoglierli in canestri senza fondo.

Quando si poggiava il pane sulla tavola da pranzo, o nel mobile destinato alla sua custodia, era vietato poggiarlo “all’incontrario”, ossia disponendo verso l’alto la parte che aveva poggiato sul piano di cottura. Infrangere questo tabù era considerato colpa grave foriera di disgrazie.

Quando per caso un pezzo di pane cadeva al suolo, lo si raccoglieva e, prima di riporlo o di usarlo, lo si baciava.

 

 

Saturday, 22 March 2014

I setacci

I setacci (sotacci).
Nella cucina rurale non mancavano mai i setacci da farina. Il setaccio tradizionale era composto da una fascia di legno di faggio, alta una quindicina di centimetri, piegata a formare un cerchio. Le estremità della fascia erano sovrapposte e inchiodate. Il cerchio veniva infilato all’interno di una fascia inferiore, alta circa 5 cm.. Tra la fascia esterna e l’interna era tenuta ferma la rete metallica che, nei setacci più moderni, fungeva da vaglio. I setacci più antichi, invece della rete impiegavano una pelle di porco forata con forellini di diametro variabile a seconda del tipo di vaglio che si desiderava ottenere.

 

Setaccio a trama fine sotacciu (n. i. 57)

provenienza: Leonessa
materiale: legno di faggio e rete metallica
descrizione: setaccio cilindrico a fasciatura lignea con fascia inferiore di rinforzo
misure: diam. cm. 30; h. cm. 12,5; fascia di rinforzo: h. cm. 5
stato di conservazione: ottimo
acquisizione: dono di Silvana Pasquali
anno: 2013

  

Setaccio a trama fine sotacciu (n. i. 58)

provenienza: Casale dei Frati (Leonessa)
materiale: legno di faggio e maglia metallica
descrizione: setaccio cilindrico a fasciatura lignea con fascia inferiore di rinforzo
misure: diam. cm. 41,5; h. cm.13,4; fascia di rinforzo: h. cm. 5
stato di conservazione: buono
acquisizione: dono di Rosa Olivieri
anno: 2011

 

Piccolo setaccio a trama fine sotacciu (n. i. 177)

provenienza: Leonessa
materiale: legno di faggio, rete metallica
descrizione: staccio da farina (usato per dolci)
misure: h. cm. 9; diam. cm. 20; fascia di rinforzo: h. cm. 4
stato di conservazione: ottimo
acquisizione: dono di Loredana e Ovidio Iacorossi
anno: 2013

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